| Nicola Cauda racconta “Intossicato dall’apicoltura”
a cura di Paolo Faccioli, gennaio 2007
Io son del ’30, 76 anni compiuti. Sono stato “intossicato” dall’apicoltura da un cugino di mio papà che aveva delle api vicino alla casa dove noi abitavamo in Valtebbe, il paese più bello che c’è nel mondo. Sulla variante di Montà, quando ti trovi vicino a quel cocuzzolo di case che c’è a fianco al ponte, c’è una piazzola: se ti fermi in quella piazzola puoi ammirare la città di Valtebbe…città? è una casa diroccata! Io son nato lì. Ero una bestia cattiva, perché se ero una bestia buona sarei crepato. Son nato con un’ostetrica e un’aiutante, adesso vanno nelle cliniche… Mio nonno e il fratello di mio bisnonno hanno comprato questa casa perché una volta non c’era la televisione e di figli se ne facevano tanti. Mio nonno aveva sei figli più una femmina. E poi doveva fare il sindaco, doveva fare tante cose. E fra le tante cose non ce la faceva ad accudire tanto i figli. Poi è venuto il 32 e lì c’è stato il patatran di tanti, tra cui anche mio papà.
Questo zio delle api aveva cominciato a tenere le api imparando da Don Panera, lui parlava sempre di Don Panera, che era il collega di Don Angeleri. E poi c’era Don Sandri: erano amici questi tre…ma non tanto: di tanto in tanto si mordevano un po’! “L’Ape e l’Arnia” (così dicevano, io non ho visto niente) l’aveva tradotto dal francese all’italiano Don Panera di Canale. Don Angeleri, già più furbetto, l’ha fatto stampare e ci ha scritto sopra che l’ aveva tradotto dal francese all’italiano con l’aiuto di Don Panera, solo con l’aiuto: quello là aveva fatto tutto e lui diceva che aveva fatto tutto, e chi ha fatto tutto io non lo so. Da bambino, quando venivano a vedere le api, correvo subito a vederle e magari qualche volta ci scappava un pezzettino grande due centimetri dò gram e mès di cera e miele, era la fine del mondo, è lì che mi hanno inoculato il vaccino
Al tempo della sciamatura, una volta non era come adesso. Adesso facciamo quante api vogliamo con l’allevamento delle regine, siamo un po’ trafficanti adesso. Allora c’era solo la sciamatura: il dono naturale dell’ape è lo sciame. Nemmeno quando facevamo già gli apicoltori avevamo trovato il sistema di fare delle api finchè se ne vuole E allora cosa facevo? quando c’era la sciamatura io prendevo il pane e andavo a mangiare là vicino agli alveari. Usciva lo sciame e io correvo a mettere un ombrello sopra, che non prendessero il sole. Poi andavo a chiamarli a casa: “Venite giù che c’è lo sciame!” e allora venivan giù e se lo prendevano, ma poi una bella volta abbiamo detto “Ma sent’an po’, dacci uno sciame te”, e gentilmente ci ha dato uno sciame, che però era orfano e subito se n’è partito: era orfano o che cos’ era? Boh… Da bambino sono arrivato al punto che ho preso dei pezzi di tavolette, ho fatto una cassetta, ho preso le coccinelle, quelle marroni e mi son fatto l’alveare! Quel tarlo che ci rodeva per avere le api! E poi il benedetto 45 o 46 …dev’essere il 46 perchè io nel 47 sono andato da garzone, ed era prima: nel 46 è il primo sciame che abbiamo trovato. Poi nel giro di pochi giorni (mio fratello) è andato a comprare delle casse usate e abbiamo cominciato: non capirne niente di apicoltura è triste adesso, allora non era triste, ma capivi propi nient. Era una cosa pazzesca, tutti i giorni dovevamo andare a vedere quelle api e quando mio fratello andava via: “Ricordati di andare a visitare le api”. Andavo là e guardavo finchè vedevo la regina, quando vedevo la regina ero a posto e lo chiudevo. Uno si era cambiato la regina, arrivo a guardarlo, non c’era più la regina. Allora ci avevano detto che quando ci mancava la regina si doveva versare, allora sono andato a versarlo. Dopo un po’ non tornava, vado a vedere: una regina grossa così! Allora torna a metterlo lì! Perché quando una famiglia è orfana, a rovesciarla fuori le figliatrici restano là, le api sane tornano alla cassetta, si mette un telaino di covata nuova e poi ripartono.
Apicoltura villica
Andavamo a Racconigi dal cavalier Pignatta Giovanni, che era il presidente del consorzio di Cuneo, poi andavamo in corso Giulio Cesare 99 dove c’era Don Angeleri che faceva i corsi alla domenica.
E cosa insegnava? Più di tutto insegnava a fare i travasi.Una volta c’era l’apicoltura villica e nella pianura di Racconigi e Carmagnola, in tutte queste zone, c’erano cascine che avevano 40-50 cassette villiche. Se c’era uno sciame, mettevano il cassetto vicino, lui se ne andava dentro. Lo mettevano là, non gli facevano niente. Allora usavano o il tronco vuoto o quattro pezzi di asse coperti con un pezzo sopra: ci mettevano per traverso un picchetto di qua, un picchetto di là, da tenere su. Quant tribulè nialtri a togliere il favo: perchè il picchetto si strappava tutto perché erano fatte con l’idea che poi gli avrebbero dato lo zolfo per farle morire. Poi prendevano tutto, schiacciavano tutto e filtravano il miele alla bell’e meglio: prendevano il miele in quel modo mentre noi facevamo uscire le api da dentro, questo dopo essere stati a Torino (da don Angeleri).
Nomadismo in montagna
Io ero già garzone, servo in campagna, e suo papà (di Claudio Cauda, suo nipote) ha portato le api in montagna la prima volta nel 48. Da principio ne ha prese a mezzadria, ne ha comprate. Noi abbiamo subito cominciato con le casse (razionali), erano di seconda mano, di terza mano e io le ho già modificate tre o quattro volte, quelle che ci sono ancora. Quelle vecchie le ho bruciate. Erano già tipo Dadant Blatt, poi abbiamo cominciato con l’Italica Carlini, tant’è vero che io ho ancora il tipo Italica Carlini modificata. Strada facendo si modifica, si cambia, ma allora prima cosa mancavano i soldini. Adesso ci son tanti che incominciano a fare gli apicoltori col portafoglio pieno, ma una volta chi era senza e chi non ne aveva: noi eravamo dell’uno o dell’altro, scegli quello che preferisci! Era duro una volta, duro. Siamo andati avanti e nel 61 ci siamo divisi io e suo papà. Io sono andato a fare anche vent’anni alla Fiat, facevo l’apicoltore come secondo lavoro e mi sono sempre arrapatato andando in montagna. Per andare in montagna, è andato suo papà nel 47 in primavera, o 48 l’autunno. Perché suo papà era stato militare a Sambuco, poi è venuto lo sbandamento, l’otto settembre, ma quando era là ha conosciuto uno dei Tre Rivi di Monteu Roero che faceva l’apicoltore lassù, portava le api assieme a uno che raccoglieva le erbe, che era a Pietroporzio. Conoscendo questo, andammo anche noi a portarle in montagna. Cos’ha fatto? è partito in bicicletta, è arrivato a Demonte e ha preso per albergo uno stallaggio. Perché si dormiva anche negli stallaggi, sulla paglia, una volta. E poi al mattino è partito per San Giacomo di Demonte per non essere vicini. Adesso ci mettiamo degli apiari di 50 -60 alveari uno vicino all’altro, lui volle subito un’ intera vallata per sé, così non si litiga. L’anno dopo sono partiti i Brezzo. Brezzo, il più vecchio, è partito, e anche lui per non andare vicino agli altri ha preso la Valmaira. Per non darsi fastidio e per non saccheggiarsi gli apiari. Non come adesso che si mettono a duecento metri, loro subito una vallata. E’ andato su ad Acelio, Marmora. Lì poi hanno fatto la combriccola in tre o quattro apicoltori. Hanno preso una casa in affitto. Abbiamo cominciato in questo modo, e il primo che ha cominciato è stato Bordone Domenico detto Minot da Pastressa, il primo della nostra zona a portare su le api mediante quel Capello che era su a cogliere le erbe a Pietroporzio, lì è stato l’inizio dell’andare in montagna. Il primo anno è andato tutto bene, lui si è fermato là tutta l’estate a guardare quaranta alveari e c’era anche qualcosetta: una montagnina, il suo nome era Maria. Mentre era su ha fatto amicizia con tutti sti montagnini. E nell’inverno questi montagnini son venuti giù una settimana qui.
In principio portavamo le api a San Giacomo di Demonte poi gli apiari si sono ingranditi e abbiamo anche preso anche un’altra vallata e siamo andati su in Val Varaita.
Nel 48-49 con un po’ di stipendio mio da garzone abbiamo comprato un camion che aveva già le ruote, era una 520, quelle macchine di lusso di una volta, una 6 cilindri, hanno tagliato la parte dietro della macchina, ricavato la cabina, hanno messo un motore di un 501. Andava, girava, serviva: caricavamo poco, facevamo tanti viaggi. Aveva 13 quintali di portata e caricavamo 18 alveari. Una volta, se il miele non era più che ben opercolato, non si toglieva e allora i telaini anche pieni ma disopercolati li lasciavamo nel melario, inchiodavamo tutto il melario sopra il nido e ci mettevamo tutto in groppa.
E a suo zio (di Claudio Cauda) che è venuto ad aiutarci abbiamo fatto la “prova del nove”. Portavamo le api a Pontechianale, si caricava la sera e si viaggiava tutta la notte. Oggi si carica al mattino e alle dieci hai già scaricato. Venivano tre o quattro persone, gli amici, per vedere la montagna. Adesso per vedere la montagna ci vanno quando vogliono, una volta se c’era qualcuno: “Vieni ad aiutarmi!” Venivano gratis, gli davi da mangiare, però paga niente. Vedevano la montagna ed erano contentissimi.
In quel viaggio -avevamo già il Leoncino- prendo l’alveare e c’era una scarpata su da un lavatoio, era un posto un po’ brigantino. Vado su, scarico e lui viene su dopo, e a metà strada “Aiutatemi! Non ce la faccio più, aiutatemi !” “Ben, hai proprio preso quello più pesante di tutti!” Lo aiutiamo. Uno corre, tutti correvano avanti a aiutare. Poi ne prendo un altro di nuovo. “Sentite, se facessimo colazione, sarà che non ho ancora mangiato stamattina, e poi scarichiamo dopo” Abbiamo fatto così e dopo mangiato, prova di nuovo. E’ venuto a casa, è andato dal dottore, fa le prove e si è trovato la leucemia e poverino, dopo un anno un anno e mezzo ci ha lasciato, purtroppo. Però, dicevo, i melari li spostavamo pieni, perché non avevamo ancora scoperto il deumidificatore. Il melario pieno, la cassa piena, una cassa da 12 e il melario sopra…si faceva la “prova del nove”! In due si metteva sopra la schiena, quell’altro se la bloccava davanti e sotto avevamo i traversin che ti rompevano le ossa. Prima cosa, non si potevano mettere gli alveari vicino alla strada e il camion non era a trazione quattro ruote, finchè potevi andavi col camion, poi da lì andare avanti, o con la carriola (ma non l’avevamo ancora inventata noi), oppure portarli in spalla e fare attenzione a dove metti i piedi perchè salivi su una pietra e su un’altra, poi ne mettevi quattro o cinque qua, cinque sei là, sette otto là, perché la montagna è montagna.
Il primo anno è rimasto su mio fratello poi si lasciavano lì, c’era magari quel malgaro che ci dava una guardatina in cambio di un po’ di miele, però te le portavano via, cose che son successe, capita quello che capita.
Si portavano via nei primi giorni di agosto e si erano portate su dopo la fioritura dell’acacia, quando si tagliava il grano, prima di San Giovanni. Dipende dall’altezza. Perchè più si va su, più la fioritura è tardiva: finito l’acacia, com’era era, si portava via. La Val Varaita è più tardiva e più fredda. Il raccolto, se è un raccolto equilibrato arriva ad agosto. Invece Valle Stura, a San Giacomo è un vallone primaticcio, più caldo e quindi ai primi di giugno bisogna esser là. Non è il vallone centrale della vallata, è un vallone laterale. Ai primi di agosto si scendeva per fare ancora la menta, nelle zone di Polonghera, Pancalè, Pancalieri: solidago e menta, un miele che valeva tanto come niente, però era miele. La menta è un miele forte, adesso sono passato in quelle zone: c’è solo qualche pezzo di menta, ma allora ce n’erano, perché tagliavano e distillavano, c’era un giro di questa menta, adesso è scomparsa anche quella. Si scendeva e si faceva anche un melario o due di questo tipo di miele, un miele ricco di lieviti, un miele che fermentava con tanta facilità. Era dolce: meglio che niente. Quante cose tutte tramontate, tutte rivoluzioni dei tempi! E dopo la menta riportavamo le api qui a casa e poi si guardavano, si mettevano telaini di miele o si dava dello sciroppo di zucchero, si preparavano per l’invernamento. La menta la vendevamo a pasticcerie, dove si poteva, e tante volte in primavera ce n’avevamo ancora in magazzino e il fusto gonfiava e allora lo facevi bollire insieme a dell’acqua e lo davi da mangiare alle api… e così ti macchiava il miele dell’acacia!
In montagna era un millefiori. C’eran tante làmpole, lamponi. In quella vallata di San Giacomo c’era il taglio della legna che poi portavano a Torino. Tagliando questa legna crescevano folti i cespugli di lampone e all’epoca dei lamponi maturi salivano centinaia di ragazzi e ragazze, li raccoglievano e prendevano dei soldini.
Del miele, quello bello si vendeva bene, quello scuro è stato un problema che mi sono trascinato dietro per molti anni.
Associazioni Consorzi Cooperative
C’è un lasso di tempo in mezzo…Io poi sono quando mi sono separato (dal padre di Claudio) sono andato finire alla FIAT. Hanno visto che io sono un gran lavoratore e mi han subito dato il posto da sindacalista e mi è stato offerto di fare la propaganda elettorale all’onorevole Bima. Il mio lavoro era di portare tanta gente a delle cene, a gratis ne trovavo tanta , ho fatto dodici pranzi o cene e sono diventato anche amico con il Bima. Una volta mi trova: “Come va la tua aziendina?” “Abbiamo quel miele scuro che non riusciamo a venderlo”. “E perché non lo porti dalla Ferrero?” E lui era amico con la Ferrero, e mi prende l’appuntamento. Io mi presento all’ufficio acquisti con dei campioni di miele di castagno. Mi dicono:”Questo miele a noi serve. Ne abbiamo bisogno di un cinquecento quintali all’anno. Lo ritiriamo durante l’anno, magari quei sette otto fusti per volta. Omogeneo, che il primo fusto sia come l’ultimo”. Lo mettevano tra due biscotti, ci sono ancora, come lo chiamano? Il bianco e nero? Cinquecento quintali! Non era nelle mie capacità. A quel tempo avevamo già fondato il Consorzio Apicoltori. Nel 73-74 siamo andati con Apitalia al congresso in Romania, ho conosciuto un certo Dottor Ferraris di Cuneo e ci siam fatti compagnia là. Intanto don Angeleri era morto, è venuto il professor Vidano dell’Università di Torino, avevano lasciato l’Osservatorio all’Università di Torino e io ero agganciato all’Università di Torino e insieme a tutta la cricca del simposio di Torino siamo andati a Brebbia, a portare il diploma di esperto mondiale al cavalier Porrini. In quell’occasione trovo proprio questo Ferraris con cui eravamo insieme in Romania. Ci hanno offerto il pranzo, “Facciamo un tavolino di Cuneo”, c’era Ferraris, un certo Lavagna, Castrini, io e la moglie. Sono sempre stato di quelli che tirano i sassolini in piccionaia. Ho detto:”A Cuneo abbiamo un consorzio, ma un consorzio dovrebbe servire a comprare assieme, a vendere assieme, per poter spuntare qualche soldino in più” “ Hai ragione, ci penso, poi ne parliamo”. Passano quindici venti giorni, non di più: mi telefona: “Stiamo trasformando il Consorzio in qualcosa di più moderno”. Ci siamo trovati al Consorzio Agrario e lì è nato il Consorzio fra apicoltori cuneesi, prima era Consorzio Apicoltori Cuneesi, ci abbiamo messo un fra tra uno e l’altro ed è stato il nuovo Consorzio Ci trovavamo in seno alla Coltivatori Diretti, da cui siamo stati appoggiati, in Piemonte, in tutto quello che abbiamo fatto. Andavamo a fare le riunioni vicino all’ufficio dell’Onorevole Carlotto. Bima sapeva che avevamo fatto quel consorzio e mi dice “Parla con quel Carlotto, che è della Coltivatori Diretti. Magari può fare qualcosa si più” e una volta gli parlo. Dopo un po’ di tempo mi manda Diale che sarebbe il direttore della Cooperativa (Piemonte Miele) –adesso è uscito comunque. Facciamo questa Cooperativa.
Allora tutti avevano i banchetti, un po’ come adesso, adesso c’e un ritorno, e la gente si arrangiava. C’era chi ne vendeva più di quanto ne produceva, allora venivano a prendere due latte uno, un quintale l’altro, e ne vendevamo anche noi nei negozi: mettevamo il miele nei bicchieri poi li sigillavamo col cellofan, gli mettevamo il nastrino col nostro nome attorno,un lavorone. La cooperativa riusciva ultimamente a smerciare quegli otto-diecimila quintali all’anno. Inizialmente la cooperativa non spingeva tanto la richiesta di conferire perché non trovava tanti sbocchi commerciali, siamo andati a fare la Fiera a Verona, siamo stati là otto giorni, facevamo le fiere del formaggio a Cuneo, mettevano il banco e poco per volta sono arrivati a vendere delle montagne di miele, ma poco per volta ci han messo trent’anni. Così prima affittavano dal Consorzio Agrario quel capannone piccolo e stretto (a Cussanio, frazione di Fossano), poi non stavan più dentro e si son messi fuori, poi hanno fatto il primo capannone nuovo poi un altro nuovo di fianco.
Miele chiaro e miele scuro
Il castagno lo facciamo qui quindici giorni dopo l’acacia ma nei primi tempi portavamo le api in montagna prima del castagno, perchè non trovavamo da venderlo mentre in montagna si faceva un miele chiaro che era ricercato e ci invogliava a fare la transumanza. Qui c’è acacia e castagno ma prima ancora c’è ciliegio e tarassaco, ci si fa poco, ma stimolano le famiglie per svilupparsi, e dopo il castagno è arrivata la melata. Una volta si lasciava il castagno sopra, se non si spostava: gli serviva dopo per l’invernamento. Chi stava fermo era obbligato a fare così, ma noi prendevamo le api e scappavamo su in montagna per non prendere quel miele scuro e andavamo sopra all’altezza in cui non ci sono più le fioriture di castagno.
E’ da una quindici anni che il castagno si vende.
Allora non piaceva perché era amaro,il miele allora doveva essere dolce dolce.
C’è ancora gente adesso che compra e usa il miele solo se ha il raffreddore, ma oggi abbiamo tanta più gente che alla mattina a colazione nel caffelatte ci mette un cucchiaino o una cucchiaiata di miele mentre una volta questo non si faceva. Io per primo ho sempre fatto colazione con una zuppa di caffelatte e ci mettevo l’acacia perché il miele di castagno la prima volta che lo metti a fare la zuppa senti l’amaro, ma dopo otto giorni, forse anche meno, non si sente più e non ti piace più lo zucchero o l’altro miele, perché uno si abitua a quel gusto.
Allevare api
Io sono arrivato a prendere centoventi centotrenta sciami in un’annata, su 300-400 alveari, adesso 2-3 sciami e non sono nemmeno dei nostri, non si sa da dove arrivano. E’ stata una cosa progressiva. Siamo arrivati a livellare le famiglie a metà aprile, poi abbiamo provato a cambiare tutte le regine tutti gli anni, ma non andava bene perché si andava a rischio della consanguineità (ammazzando tutte le vecchie e mettendo tutte le giovani). Producevamo delle regine selezionate che erano molto meglio per chi trasportava le api. Chi fa il nomadismo finisce il raccolto, o è quasi finito, ma ha già l’altro posto pronto da portarle che è già in fioritura. Tolgono il melario, caricano e vanno via. Nel giro di ventiquattr’ore sono di nuovo sul raccolto Le famiglie non hanno bisogno di tante scorte nel nido. Mentre chi resta ha quindici giorni di intervallo tra una fioritura e l’altra, e se io non tolgo il melario da sopra il miele di acacia viene macchiato e mi viene giallo Se lo tolgo arriva qualche giorno di carestia, di pioggia, di qualche cosa, e le api vanno in tilt, in crisi. Perché le api hanno bisogno continuamente di polline, di miele, io non saprei spiegare quanto ne hanno bisogno giornalmente, ma ne consumano molto. Se vanno in crisi ti crepa la covata, allora si va a rischio di malattie. Allora abbiamo dovuto cambiare tecnica, non più fare cambio totale di tutte le regine ma soltanto cambiare quelle che non vanno, le più vecchie. Allora con l’allevamento delle regine si seleziona delle api che fanno anche delle scorte, perché le api, facendo la scorta sopra il bordo della covata mettono anche nelle celle del polline, poi lo coprono di miele. In un momento di crisi, di carestia, prendono dalle scorte e la famiglia non ha dei momenti di crisi. Si evita tante malattie. Cosa facciamo? Abbiamo cinque apiari: le migliori delle migliori –e sono tutte segnate, ce n’è una qua, una là, una là: di questo apiario sono quattro o cinque che vengono prelevate e portate in un certo apiario Dall’altro apiario ce ne sono altre che hanno dei pregi, hanno un ++. Se la famiglia è solo mediocre non ha niente Se ha un – è sotto, se ha un+ è sopra, se ha +++ è in gamba. Devono essere, docili, brave, laboriose. Che puliscono, che lavorano presto al mattino. Vengono selezionate e portate nell’apiario di allevamento. Poi nell’apiario di allevamento sono promosse solo tre, da cui si prende la covata. Da tre per non avere la consanguineità. Si guarda la resa, che facciano provviste, che puliscano. Con un mazzetto di aghi si punteggia un pezzo di covata: in ventiquattr’ore se l’hanno pulita sono in gamba, se no prendono zero. Perché quella famiglia che ha dei problemi, che noi diciamo vagabonde, quelle non lavorano e anche se gli dai la nutrizione non la mangiano. Quelle lì bisogna evitarle: ciac! sostituzione della regine. Avere un allevamento di regine alle spalle è la cosa più meravigliosa che abbiamo inventato. In realtà non abbiamo inventato niente perché abbiamo copiato tutto, perché noi purtroppo non si può avere un’idea geniale-”ho inventato l’acqua calda”. Uno parla, l’altro parla, una volta non si parlava tra apicoltori. Uno aveva paura che l’altro imparasse qualcosa, si era invidiosi uno dell’altro. Erano tutti chiusi quando ero giovane. Noi siamo stati i primi a divulgare un po’ l’apicoltura. A parte che non dicevano anche perché non sapevano niente, però il poco che sapevano non lo dicevano. Io ho fatto un’infinità di corsi, sono stato a Bologna al Corso dell’Istituto Nazionale, dieci giorni al corso per diventare esperto. Sono stato 14 o 15 volte a Finale Ligure. E a Finale io avrei anche una radice…
I Benedettini di Finalpia
Una volta i frati benedettini di Finalpìa avevano bisogno di uno che fosse pratico di tipografia.
E hanno domandato ai benedettini di Alba di dargli uno capace. E gli danno uno di Canale. Un anno viene su a Canale in ferie, e sente dire “C’è uno a Montà che ha le api” e mi arriva qua e chiede a che prezzo si vendeva il miele. Mia moglie gli dice: cinquecento lire al chilo. Lui l’ha trovato caro: “Ci penso, poi ritorno” Ha poi pensato “ Ma non mi sono neanche presentato” e allora si ripresenta l’indomani e ci spiega che era uno di Canale che era andato dai Benedettini a Finalpia. Aveva delle api, ma il giorno che smielava aveva venduto tutto e non ne aveva altro. A questo punto – e questo è stato il grande sbocco per collocare il miele scuro- a lui serviva del miele scuro, in Liguria hanno soprattutto quello. Ne ha caricate due latte da venti chili, e la settimana dopo era già di nuovo qua, già venduto tutto. E dopo che ha fatto due o tre volte così: “Ma perché non carichi tutto quello che va sulla macchina?” Non aveva la lira. “Facciamo una cosa, carichi tutto quello che puoi, vai giù, lo vendi, quando hai venduto ritorni, paghi quello e ne prendi dell’altro. Ed è cominciato il giro. Andava bene per me. E litigavamo che io volevo di meno di quanto mi voleva dare lui. Il commercio lo facevamo all’incontrario, perché lui poteva pagarlo di più e noi ci accontentavamo anche di men:o “Portalo solo via”. Là non hanno il miele chiaro, ogni zona ha la sua clientela. Sto frate faceva affari, poi è arrivato un fratucino che aveva studiato, Padre Giovanni. Poi c’è stata la Cooperativa (Apiriviera), adesso hanno l’erboristeria, girano con sette-ottocento alveari, vogliono anche mollare un po’ causa i tempi. Si tira e poi si molla, anche noi abbiamo mollato un po’ negli ultimi anni, adesso produciamo api. Il miele tira poco? allevamento di regine, nuclei! dare al mercato quello che chiama.
Malattie delle api
Purtroppo la peste americana l’abbiamo già trovata forse nel 47-48: abbiamo preso alveari da uno che ne aveva due o tre a Canale, li abbiamo travasati e abbiamo subito trovato la peste. L’avevamo vista dai libri, poteva essere. Mio fratello ha preso il telaino e l’ha portato a don Angeleri e lui gli ha detto che era peste americana. Allora davano delle pastiglie di sulfatiazolo che non andavano bene per niente: la pastiglia era addizionata a della sostanza, amido, e per quanto la pigiavi quando la mettevi nel fusto ti veniva sempre sotto, perciò c’eran delle famiglie che ne prendevano tanta e altre che ne prendevano niente. Non si mescolava per niente. Poi è arrivato il solfatazol sodio che era come il sale e allora si usava, ma siamo indietro di trent’anni e anche più. Poi per un periodo di tempo si usava la streptomicina e anche questa l’abbiamo mollata, poi l’ossitetraciclina. Adesso son sei o sette anni che non usiamo più niente: una famiglia, al primo sintomo, eliminarla. Che importa bruciare uno famiglia? Ne faccio due altre e copro il buco. Avendo l’allevamento… Per disinfettare usiamo l’ossicloruro di sodio. Una volta si usava anche l’aceto o acido acetico -lo davamo nello sciroppo a primavera- adesso usiamo quasi più niente.
Don Angeleri e Carlo Vidano
Io ero giovane, sono andato da don Angeleri, però andava più mio fratello. Don Angeleri poi è morto e ha lasciato la sorella. Era un ometto piccoletto, io sono stato poche volte, che poi non è che spiegasse tanto: di fare il travaso, comprare i telaini, comprare le arnie, che lui le vendeva, e le attrezzature che servivano. Non aveva un gran negozio. Diciamo che ha messo le prime pietre,la traccia, perché poi chi ha divulgato bene è stato il professor Vidano. Per me era un fratello e mi vengono le lacrime agli occhi a pensare che è mancato. Vidano è stato un pilastro dell’apicoltura. Mi ha chiamato al suo fianco, sono stato il primo pioniere a portare le api a Lagnasco per la fecondazione delle fioriture, soprattutto sul pesco, poi sul pero, poi sulle mele, poi sul kiwi. Abbiamo fatto i primi passi assieme. Vidano è stato qualcosa di eccezionale, un pioniere.
C’è una cosa che mi è rimasta impressa e che abbiamo adottato.Lui era stato nei paesi nordici. Là avevano cominciato, d’autunno, a toglier tutto il miele e dare tutto sciroppo di zucchero. Le api se mangiano miele fanno delle scorie negli intestini. Se mangiano zucchero no, e possono anche stare tre o quattro mesi e più senza dover uscire. Questo sistema l’ho poi adottato io per molti anni. L’ho pure sperimentato in questo modo: c’era uno in montagna che mi comprava le api dopo l’acacia e se le portava su. All’autunno le faceva morire per prendere il miele, come una volta. E io gli dico: “non possiamo fare una via di mezzo, io le do le famiglie e lei, quest’ autunno, prende tutto il melario e i telaini e mi lascia solo i sei centrali dove c’è la covata?” Così vado a prendermi quei telaini, li ho portati a casa, ho messo tre telai vuoti a fianco e il nutritore a tasca con quattro o cinque litri per volta di sciroppo, e che famiglie uscivano dall’inverno! Abbiamo cambiato anche sistemi perché una volta i telaini del nido li smielavi e facevi il tuttifiori, adesso con tutti i trattamenti che si fanno non si può usare quel tipo di telaini per smelarli. Allora facciamo famiglie.
Poi ho smesso di frequentare Torino avendo un po’ di raccordi qua in zona, poi si sono anche staccati politicamente. Marletto l’ho conosciuto, un bel professore, un simpaticone.
Un anno mi chiama il vicesindaco del paese, che nel camposanto di San Rocco, frazione di Montà, c’erano delle api che davano noia alla gente dove c’erano i loculi. Vado a vedere e trovo uno sciame che era entrato in un loculo . Avevano fatto il loro nido e l’anno prima i calabroni avevano fatto il nido nel medesimo punto, poi col freddo il gancio si è staccato e già cominciavano a smontare il nido dei calabroni, era così bello che l’ho portato a Merletto. L’aveva sulla sua scrivania “Avuto dal signor Cauda”.
Vidano era espansivo, era andato in Cina e aveva filmato tutta l’apicoltura cinese, ti faceva vedere le diapositive del suo viaggio, era qualcosa di istruttivo, insegnava invece che replicare cose che già si sapevano, poi ho fatto il corso a Reaglie, il primo sull’allevamento di regine e produzione di pappa reale. Prima ho imparato lì, poi impari un po’ da solo, lì traslarvavano con il picking in ferro, adesso ci sono i picking che arrivano dalla Cina, è tutto un’altra cosa. Invece il Porrini usava la penna di gallina.
Adesso è il figlio che fa i traslarvi però io gli faccio da spalla, cerco la covata, metto tutto a posto. Bisogna aiutarli sti giovani.
Continuare a imparare, imparare da tutti
Ho trovato tanti apicoltori e da tutti c’è da imparare, anche una sola mezza parola. Mi ricordo che il buonanima di Piana diceva “Io, se avessi tempo, andrei a trovare tutti gli apicoltori, anche quello che ha due alveari, perchè ha solo due alveari, ma può avere quell’idea, quel ferro, quella cosa quella mezza cosa, quella mezza parola che ti può aiutare, insieme a un’altra, a fare un’idea. Io ho messo in pratica quella cosa, imparo da tutti. Una volta dei giovani di Cuneo si son messi a fare un libro tutti assieme. Sono passati in tutti i paesi della provincia a a fare delle interviste a tutte le aziende: com’erano cominciate, cosa facevano, eccetera e ne facevano poi un trafiletto molto intelligente perché poi tutti hanno comprato un libro, e pensa a quante aziendine c’erano e quanti libri han venduto! Era il 58, più o meno, eravamo ancora assieme (col fratello). E vanno a scrivere su quel libro: “Non ci sono segreti in apicoltura che i fratelli Cauda non conoscano”. E’ la bestialità più grossa che sia stata scritta. Perché nell’apicoltura non si finisce mai, c’è sempre qualcosa da modificare, da capire. Quella cosa che magari ce l’hai da dieci anni sotto agli occhi, non hai capito che non andava bene, e fatta in un altro modo va meglio. Questa è l’apicoltura.
Se penso dai primi passi dell’apicoltura ai giorni di adesso… fino a dieci-dodici anni fa toglievamo il miele dai melari con la penna e si scuotevano le api. Oggi, coi soffiatori, da solo si toglie 65-70 melari all’ora, caricandoli anche sul camion. Una volta dovevamo essere due o tre e le api si arrabbiavano, erano imbizzarrite. Avevo un soffietto per il fumo a pedale, l’avevo inventato io. Ho visto una foto sull’Apicoltore Moderno di don Angeleri. Adesso dobbiamo fare anche a meno del fumo perchè dà gusto al miele, ora dobbiamo usare aria pura, se non è inquinata anche quella!