| Mario Matteodo, geometra, 61 anni
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Fliciòt, primo apicoltore di professione e nomadista in Val Varaita
“Io non ho mai fatto l’apicoltore, ma sono sempre stato curioso fin da ragazzino e quindi seguivo un signore di Frassino, che faceva apicoltura con nomadismo, credo che fosse tra i primi. Teneva le api a Frassino, dove aveva la sua casa, poi d’estate le portava a Pontechianale in frazione Genzana, sono andato anche su con mio nonno (quindi parlo di quando avevo quattro, cinque, sei anni), a vedere come faceva. Era Botta Felice, che viveva quasi esclusivamente con l’apicoltura. Aveva già allora cento e più casette, cento e più alveari, non le ho mai contate, però le teneva sia a Borgata Seimandi che a Borgata Fasi. Aveva affittato un terreno non lontano dalla fontana: una volta c’erano le fontane esterne col lavatoio e le api potevano andare a bere. Guardavo lui quando spostava le cassette, era una cosa interessante, ed era un precursore: le teneva già bene, le casette se le faceva lui, e anche i telai per il miele. Adesso ne vedo in giro tante, ma le avevo viste cinquantacinque anni fa da questo signore, che aveva il suo laboratorio.
Per noi ragazzini era anziano, avrà avuto una cinquantina d’anni. Una volta nel nostro dialetto quelli che avevano qualche anno in più erano barbo, zio, tradotto dal nostro patois occitano. Barbo era un rispetto che davi a tutte le persone più anziane, e quindi noi “barbo Felice”, e lui ”neh, dime ma Fliciòt”. Poi era un contastorie, uno che sapeva fare con la gente, raccontava sempre barzellette, sembravano vere, uno che ti conta la storia vera, che poi è gonfiata, rivista e tutto quanto.
Aveva due mucche e le api, erano lui e la moglie ed eravamo nel 1952-53, ma lui ha cominciato prima. Quando io sono andato su a trovarlo con mio nonno probabilmente sarà stato prima delle elementari. Io sono del ’47, quindi circa ‘52-‘53-‘54. Lui ha continuato finchè ha potuto lavorare, poi ha venduto i suoi alveari se non sbaglio a qualcuno di Chianale o di Pontechianale.
Le trasportavano già con un camion. Dalla borgata Seimandi e dalla borgata Fasi le caricava su un piccolo carretto, perché c’erano solo mulattiere, e ci sono ancora, visibili, a Frassino. E con una mula, e se no a mano, le portavano fino a vicino a casa nostra, dove abitavo io a Frassino. E di lì passava un camion, di notte a mezzanotte, all’una, alle due, e caricavano le api su questo camion e le portavano a Genzana. Le mettevano a posto prima che arrivasse l’alba perché poi le dovevano aprire. Alla sera aspettavano che fossero quasi tutte rientrate, le chiudevano mettendo una rete davanti per la respirazione, poi le caricava su questi carretti. Si faceva aiutare e caricavano sul camion e le portavan su prima che arrivasse l’alba. Su a Genzana arrivavano col camion vicino al terreno su cui le trasportava, poi le rimetteva sui cavalletti con le tavole, tutto in ordine, apriva la feritoia dove possono uscire le api e al mattino le api riprendevano. Faceva nomadismo come fanno adesso, solo che adesso lo fanno a una velocità, perché hanno il camion che arriva sul posto, invece dalla Borgata Seimandi e Borgata Fasi c’era un bel pezzo da fare!
La valle che si spopola
La Valvaraita in quegli anni si stava spopolando, ma aveva cominciato prima, subito dopo la seconda guerra mondiale. Quando sono tornati tutti, si sono sposati e han messo su famiglia, e poi se ne sono andati in Francia. Quasi tutti quelli di Frassino nella zona di Parigi, qualcuno anche nella zona di Marsiglia, Nizza, la parte sud della Francia: qualcuno aveva dei parenti già andati là dopo la prima guerra mondiale, prima del’22, e per conoscenze varie cercavano il posto di lavoro e se ne andavano. La valle si stava spopolando, ma non era spopolata come adesso. Tutte le borgate erano ancora abitate, qualcuna da più famiglie, qualcuna un po’meno, ma erano ancora tutte le borgate che io conosco. A Sampeyre sono venuto più tardi, ma mi dicono che fosse la stessa cosa. Meno popolate degli anni della guerra e anteguerra, perché lì era una cosa bestiale. Io ho perso mia madre l’anno scorso, lei era già malata ma alle volte ci mettevamo lì tanto per ammazzare il tempo e lei, che ha fatto la portalettere per tutta la vita e conosceva tutti, incominciava a contare sulla punta di una mano le persone che abitano una borgata: è spopolato completamente, adesso siamo ai minimi.La vita in vallata era diversa da adesso, non so se solo in vallata, credo in Italia in generale c’era la miseria, ma stava scomparendo, e comunque noi ragazzini non ce ne accorgevamo, perché prima di tutto danno ai bambini, poi se resta qualcosa i genitori, gli anziani se lo prendono, se no tirano la cinghia: erano tempi non di tiracinghia, ma son partiti tutti con una valigia i nostri, era qualche anno prima dei meridionali che sono venuti a Torino.
Chi non emigrava, in quel periodo lì, aveva un po’ più di spazio, perché affittava i terreni da chi era emigrato e quindi faceva un po’ di agricoltura e si è incominciato con l’artigianato: muratori, falegnami…ma nei paesi più che altro c’era agricoltura e stavano leggermente meglio. Poi chi non era andato via definitivamente faceva le stagioni magari a Torino e tornava d’estate a aiutare a fare il fieno. Come quelli che andavano a Parigi e che avevano ancora i genitori anziani, che avevano ancora dei fratelli qua in valle. Qualcuno si fermava qua d’estate, si prendevano il mese di ferie, possibilmente anche due per tornare al paese e aiutare chi era rimasto qua. Quelli che hanno mantenuto la cittadinanza italiana pur essendo ormai là ,vivendo in Francia, adesso stan morendo quasi tutti -l’età!- però avevano il cuore qua. Il loro problema era guadagnarsi da vivere, far studiare i ragazzi, però la loro vita, il loro pensiero, il loro ricordo era qua. Ecco perchè han compratogli alloggi qua, si son fatti aggiustare le case. Ma adesso si sta spopolando ancora di più perché i giovani che si sono sposati là, che hanno la loro famiglia altrove, vengono di meno al paese. Questo è ovvio, uno torna se ha un motivo per tornare, se non conosce più, se non ha più sentimenti, cosa torna? Io credo che quelli che sono venuti a lavorare alla Fiat, che vengono da Catanzaro o da Falerno, ci tengono al loro paese, però quando hai perso la tua famiglia ti fermi qua. I nostri han comprato le case nella banlieue parigina, in quelle zone lì, e il sabato e la domenica è lì che vanno. Io mi ricordo quando ero a Sampeyre, quarant’anni fa circa, c’erano dei ragazzi che partivano da Parigi, prendevano il treno il venerdì sera, venivano a Torino. Si andava a cercarli, venivano su e ripartivano la domenica sera per andare a scuola il lunedì mattina a Parigi. Questo non succede più perché se non hai un motivo valido non lo fai.
Il sapore del “miele bianco”
Oltre questo Botta Felice c’era anche il nonno di Gian Luca Garnero che faceva l’apicoltore: Giaculìn d’la füma, Garnero ovviamente, ma era conosciuto così. Avevano una casa a borgata Radice. Molte famiglie avevano le rüsce, i tronchi con le api dentro, facevano morire le api e poi prendevano il miele, le casette sono venute in seguito. Botta Felice e suo nonno in parte avevano già le casette a unze telarìn, non lo so perché a undici, era tassativo, e lui (Botta) ci guadagnava abbastanza: ha mandato sua figlia a scuola a Torino ed è diventata maestra. D’estate viene qua ed è stata fino a qualche anno fa insegnante qui a Sampeyre. Aveva delle spese e le sosteneva, ma lo faceva bene. Quando siamo andati su a trovarlo col nonno abbiamo mangiato lì, ci ha ricevuti benissimo, era amico di mio nonno, però poi “Felice ti lasciamo in pace perché hai le tue cose da fare”… Seguiva le api giorno per giorno, le faceva rendere al massimo perché se vedeva qualcosa che non funzionava interveniva nella giornata, dormiva su, adesso si va e si viene, ma lui dormiva su a Genzana, aveva una stanzetta dove metteva i suoi attrezzi e anche il suo lettino, dormiva lì. Non veniva mica giù perché diceva “Io devo essere qua, devo sorvegliarle, perché sono il mio reddito, la mia vita”. Faceva quello che c’è da fare veramente a tempo pieno e d’inverno preparava le sue casette, le cambiava, aveva il suo laboratorio e lavorava tutto l’inverno lì, facendo cose nuove, provando, era ingegnoso. D’inverno ha provato a dare alle api il melittosio, poi, dopo un po’, mi ha detto: “Ho notato che quelle che gli do più melittosio d’inverno, mi rendono meno d’estate perché sono più deboli”. Quando andava su a Chianale faceva il”miele bianco” io ero quasi sempre il primo ad assaggiarlo. Diventa subito duro e quando tornava giù, che depositava tutto, la prima cosa mi chiamava e mi dava il suo botticino: “Questo è per te”.
Avevamo dei buoni rapporti ed è giusto così, anche perché tra vicini non c’era grande svago alla sera, non c’era la televisione, non c’era neanche la luce, e ci si ritrovava la sera a fare quattro chiacchiere da uno, l’altra sera dall’altro, per le stalle, mentre lui lavorava, raccontava. Lui era uno che raccontava le barzellette forti.
“Tra verità e bugie mandi avanti il lavoro…”
Dove le metteva a Borgata Fasi, i miei nonni avevano l’orto vicino. D’inverno le portava sia a Borgata Fasi sia a Borgata Seimandi e quelle un po’ debolucce le lasciava lì, come il margaro che sale la mandria e ne tiene qualcuna in cascina perché dice: quella non ce la fa ad andare su. E magari veniva a disinfettarli, gli metteva qualcosa… poi qualche verità la diceva e di bugie anche perché fanno parte del mestiere di tutti: tra verità e bugie mandi avanti il lavoro.
Io una volta sono andato a comprare l’uva piu giù, a Monforte, e questo signore ci faceva vedere il vignòt, che era una piccola vigna. Un giorno ero lì, eravamo diventati amici, chiacchieravamo, arriva un altro a vedere e lui lo porta a vedere l’uva del vignòt e io gli dico: “Senti, ma questo vignòt quanti raccolti ti fa all’anno, perché vendi a tutti quelli che vengono…Io l’anno prima gli avevo portato giù un carico di letame, noi avevamo le bestie, e lui mi dice: “Senti, non chiedermi quale uva vendo, perché io non ho chiesto a te che bestie han fatto quel letame che mi hai portato…tu prendi l’uva che ti do, poi sia quel vignòt o un’altro vignòt… Poi mi ha spiegato che quel vignòt era vicino a casa, aveva della bella uva, la vendeva a tutti, e poi raccoglieva quello che aveva evidentemente. E forse loro quando fanno il miele non è che vengono a dirmi “L’ho preso da quell’altro, l’ho comprato da quel tizio o da caio…” Io non lo so se Botta comprava qualcosa da qualcuno, se lo comprava dal nonno di Garnero o da altri. Io ero un ragazzino, non è che andassi a mettere il naso, ce lo diceva mio nonno.
Il nonno di Garnero lo faceva più in forma di passione di tutti, molti altri in paese, sia a Sampeyre sia a Frassino, dappertutto, avevano dei cinque, sei, sette, otto rüsce, c’erano anche a Chiaronto, sulla prima casa c’ erano delle rüsce sui balconi.
Lui le vendeva già, sentivo che parlava coi miei, coi nonni, le vendeva già ai collegi, giù a Torino, non so a chi.
A Frassino non venivano apicoltori da fuori valle, è cominciato ultimamente il nomadismo, ma allora no, per i trasporti poi non c’era lo spazio, non ci sarebbe stata la possibilità di sistemare quelle api, parlo di Frassino.
Io per qualche anno ne ho avuto qualcuna poi quando è venuta la varroa e ho desistito. Ho ancora delle casette. Le lascio lì vuote perché uno o fa una cosa o ne fa un’altra, poi a me spiace se degli animali muoiono, anche se sono piccoline. Mi avevano insegnato anche ad andare dalle api senza niente, Simunìn dal Mestre è uno che sa, lui le ha avute a Frassino Val Rieio o a Rua Grando Quelle poche cose me le ha insegnate lui, lui e suo zio che è ancora vivente: Matteodo Antonio, classe 1947.
Le ha fatte fino a qualche anno fa. Anche lui poi con la storia della varroa…Molte famiglie avevano solo due, tre, quattro casette. Una volta si comprava l’etto di caffè e un chilo di zucchero e si andava avanti magari quindici giorni, un mese e allora ne facevi poco uso, facendone poco uso avevi il miele in casa. Io per la verità tutte le mattine prendo ancora la mia punta di miele, nel caffelatte non metto zucchero. Questo Matteodo Simone di Frassino aveva sette, otto casette. L’appassionato, quello che lo faceva per hobby, aveva il suo margine ristretto, quando c’e da cominciare a far dei corsi per poterle medicare, queste api, per poi vederle morire, dover bruciare, disinfettare la casetta, allora chiude.
Se voi fate un giro nelle borgate trovate ancora quelle piccole tettoie che sono gli apiari a Morero al Palais a Sampeyre ce ne sono di più, a Frassino di meno perché cercavano di metterle già più basse come altitudine, dove c’è meno freddo, e poi d’inverno le mettevano sul balcone in modo che il sole le prendesse. Rivolte ovviamente verso sud e riparate dal vento e dal freddo.
Io ho perso un po’ di vista quelle cose nella mia gioventù perché sono andato due o tre anni in collegio, a scuola a Saluzzo, a Cuneo e mi ricordo quando loro sono arrivati su a Frassino, ma allora si guardavano più le ragazzine che le api! C’è stata una crisi totale, una perdita di identità della montagna, era tutto un po’ abbandonato, poi sono arrivate quelle malattie e siamo arrivati quasi a zero allora è cominciato ad arrivare gente da fuori, si sono creati degli spazi per questi apicoltori che fanno nomadismo dalla pianura, dalle Langhe. Più viene gente da tutte le parti più vengono malattie.
Pensare un futuro
Adesso c’è di nuovo la consapevolezza che sarebbe bene che si facesse qualcosa in loco, sarebbe un bene per il paese, se c’è qualcosa c’è qualcosa per tutti, se non c’è niente c’è l’abbandono totale, chiudiamo.
Le nostre valli sono state massacrate. Dopo la guerra non si è mai fatto niente, non è mai stato dato niente, nelle valli han preso i giovani e li han mandati a morire: vediamo le nostre lapidi che sono tutte piene di una serie di nomi infinita. E quando son tornati han dovuto andare altrove perché non c’era da vivere. I paesi si sono spopolati via via, ma costantemente. Mi auguro che si riprenda, ma ho qualche dubbio.
Purtroppo abbiamo moltissime case vuote, e questo è un grosso problema che porterà altri grossi problemi. Moltissime case varranno abbandonate. Finchè eran fabbricati rurali c’è chi manteneva la luce e pagava l’acqua anche se non ci veniva che quindici giorni all’anno.Adesso si sta mettendo tutto a catasto, si dà una rendita. Per aiutare la montagna, troviamo delle case disabitate in pessimo stato che hanno una rendita superiore a case di Saluzzo, il che è un paradosso. Se la vendi o la affitti a Saluzzo, vale dieci volte tanto. Qua non la affitti, se hai una casa vuota in una borgata a chi la affitti? E’pieno di cartelli “in vendita”, ma di “comprasi” non ne troviamo.
Si spera che col turismo, anche un turismo mordi e fuggi, si tengano i negozi.
Il fisco non viene domani che nevica, viene il quattordici o il quindici di agosto: allora lì trovi ispettori del lavoro, la finanza in borghese, quelli del fisco… Tutti cercano di spennarti al massimo. Il giorno di ferragosto magari prendi un amico a darti una mano a mettere a posto, o a guardare, solo a guardare che nessuno rubi niente… “Chi è quello?” Allora verbale! Se hai guadagnato cento e hai speso diecimila… Allora fai come la panetteria di Casteldelfino, chiudi, e questo è un danno. C’è chi cerca di lottare, chi chiude e se ne va.
Negli anni in cui c’era il boom edilizio, se costruivi a cento riuscivi a vendere a centodieci centoventi. Sta cessando perché costruisci a cento e dovresti vendere vendi a ottanta…
Se riescono, bisognerebbe cambiare sistema e fare un altro tipo di turismo, portare altra gente con altre caratteristiche, altre idee: un turismo diverso. Non è certamente con la seggiovia che risolviamo i problemi della valle; un turismo ecologico, di chi ama veramente la montagna, di chi vuol venire su e rispettare la montagna e viverla così com’è. Con dei piccoli cambiamenti, perché se c’è una strada rotta bisogna aggiustarla, che le case vengano sistemate così com’erano le case del posto.
Anch’io ho sbagliato, per carità, però capisco…
Chi ha impostato la sua vita in un altro modo a riciclarsi è dura.
Ci son solo le grandi crisi, le grandi rivoluzioni che cambiano i tempi.
Ci dovrebbe essere un ritorno all’antico nel senso delle amicizie. C’erano discussioni anche anni fa, non è che tutti andavano d’amore e d’accordo, però c’era il senso del perdono e anche i due che hanno avuto una litigata si ritrovano. Una volta ci si trovava nelle stalle.
L’unione fa un po’ di forza, qua è quello che manca Una pro loco o una Comunità montana non ha più senso, così com’è gestita. Se c’è un’unione di comune dovrebbe unire, non che si cerca la sedia e la poltrona.
I comuni hanno delle spese enormi e nessuna risorsa. Perché dobbiamo lasciare un’illuminazione pubblica in quelle borgate dove non c’è più nessuno? Perché dobbiamo togliere la neve alle borgate dove non c’è più nessuno, sono i proprietari stessi a chiedere di non farlo per non invogliare i ladri, vengono a rubare mobili vecchi, ripuliscono tutto. A Narbona hanno anche demolito la chiesa, han demolito le cose che non potevano portar via, tanto la montagna è di nessuno…
A cavar sangue da una rapa, è dura. I montanari sono testardi, ma alle volte uno si arrende”.