Storia

Le storie parallele dei fratelli Bisio

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|  Mezzi poveri, posti buoni, lavoro tanto. Le storie parallele dei fratelli Bisio

(a cura di Paolo Faccioli e Silvana Curti)

Salvati dalle api nei  tempi più duri
(colloquio con Amelia e Giacomo Bisio)

GIACOMO: Sia il papà, Cesare, che il nonno, Giacomo, facevano gli apicoltori. Avevan le piche, i bugni. Andavamo sui monti fino a Voltaggio, prendevamo gli alveari, li mettevamo in un sacco e a piedi, li portavamo a casa.
Mio padre era stato tre anni in guerra quando ha cominciato con le arnie moderne. Il fratello di mio papà lavorava in banca a Genova; ha portato uno smielatore a mano posato per terra. Abbiamo fatto noi una cassa per metterlo sopra, se no e il miele non poteva essere raccolto!
Poi, dopo la prima guerra, ha cominciato mio padre. Dopo la seconda guerra io ero in Germania; mio fratello anche. Lui si è impegnato di più dietro le api. Avevamo una Balilla e le portavamo in giro, ma faceva lui. Poi ci siamo sposati, nel ’46, e abbiamo cominciato da parte nostra. Mio padre le aveva sempre avute, le dovevo tenere anch’io, le api. Tenevo le api, ma non avevo tempo perché noi avevamo la vigna. Poi due bambine, una oggi ha 58 anni l’altra 60, e le abbiamo messe in collegio. Quando ci siamo divisi in casa Alfredo ha preso le api come parte e invece noi abbiamo preso la casa e i terreni.

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Cesare Bisio,
il padre dei fratelli
I fratelli Bisio nel 1947 con la Balilla usata
per trasportare gli alveari e guidata da Giacomo

“Lavoravamo giorno e notte”

AMELIA: Abbiamo cominciato anche noi, poi la passione è venuta anche a me. Loro erano quattro fratelli, gli altri due non hanno fatto apicoltura.
Io lavoravo in fabbrica a Gavi. Poi siamo andati a Predosa a salariato, prendevamo settemila lire al mese. Al padrone ci piacevano le api, è andato a Genova e ha comprato dieci alveari. S’è incendiata la cascina, ma noi avevamo già comperato sei-sette alveari nostri e li abbiamo messi in una cascina di nascosto del padrone. Tenevamo quelli dei padroni e noi abitavamo da parte. Non lo sapeva che avevamo le api in una cascina lì vicina. Tenevamo lo smelatore e tutto; ci davamo del miele in cambio. Poi siamo venuti qua, ne avevamo una trentina, lavoravamo lì giorno e notte; poi siamo andati in pensione ed abbiamo comprato (a Novi Ligure). Quando abbiamo iniziato era tutto famigliare.
In primavera si è soliti dare acqua e zucchero alle api; per noi non è giusto, noi non compramo lo zucchero, gli diamo il miele perchè nel miele c’è anche il polline. Noi compravamo il legno facevamo le cornici agli alveari. Il nonno di Giacomo era falegname.

Fratelli Bisio
Fratelli Bisio
Diploma di benemerenza rilasciato
a Cesare Bisio, e firmato per il Consorzio Agrario di Alessandria, dal Cavalier Traversa, per la Federazione Apicoltori Italiani da Zappi Recordati
Al piano superiore della sua casa,
a Novi Ligure, Giacomo e Amelia tengono con affettuosa cura una raccolta di vecchie arnie e vecchi strumenti d’apicoltura. Giacomo assicura di averle usate tutte, con le api dentro, se non altro “per provare”

Fratelli Bisio

Fratelli Bisio

Un “museo vivente”: l’apiario di Giacomo Bisio Smelatori di tutte le età nella raccolta famigliare di Giacomo e Amelia

Pagati tutti i debiti

C’è stato un anno che ha preso la brina e non si riuscivano a salvare tante api. Il mese di luglio era stato freddo, e noi avevamo diciassette alveari. Andavano nutriti, ma non avevamo tempo. Era il ‘57. Andiamo in apiario… diciassette alveari tutti vuoti! Se ne sono salvati sette che avevamo a casa. L’anno dopo, con i sette, abbiamo fatto 15 quintali di miele. Andiamo a Genova in corso Sardegna, c’era una drogheria che ci prendeva questo miele. Io avevo due taniche e son partita in corriera, lui (Giacomo) è partito con la lambretta. Aveva due taniche, due dietro e due davanti. Arriva davanti al dazio, cercava con le gambe di nasconderle per passare senza pagare il dazio. Poi arriva lì, un po’ prima del dazio, e c’era una latta che perdeva. E’ uscito quello del dazio. Lui gli ha detto: “Ero qua per fermarmi”, quello l’ha aiutato, ci ha messo sotto un tappo. E io ero là in piazza della Vittoria dietro una colonna, che avevo due latte e pensavo: “Ma non arriva mai”, perchè lui doveva andare in drogheria, scaricare, e venire a prender le mie due latte. Se passava qualcuno non sapevo come fare, e non arrivava mai. Da piazza Vittoria a Corso Sardegna c’è poco.

GIACOMO: Quello del dazio mi ha detto: Ma va’, va’…!

AMELIA: Arriviamo là e abbiamo fatto tutto il pulito. Avevamo il debito dei maiali, quattro maiali: a uno dei quali era venuto il mal rossino. Nel frattempo Giacomo si è ammalato e dovevamo pagare trecentomila lire della cascina per l’affitto… la zia malata… lui non se ne parlava. Sembrava che avesse un brutto male. Fatto sta che lui era in ospedale. Prima sono andata a far la spesa a Ovada e, con le scarpe piene di fango, sono andata all’ospedale, non me ne sono accorta che avevo quelle scarpe. Andando a Ovada le avevo bagnate e così le ho messe dentro nel forno ad asciugare. Mio suocero è stato su per far cuocere le patate ai maiali… fottute le scarpe! Sono arrivata a casa la sera senza scarpe. Era un momento, con lui malato all’ospedale… Fatto sta che avevo fatto un po’ di debiti. Quarantamila lire per i maiali. Con quei soldi che ho preso del miele mi sono pagata tutti i debiti e abbiamo ricominciato.
La vigna l’abbiamo presa nel sessanta, poi lui è stato operato di ernia. Io lavoravo nella cascina, lui potava ed io legavo le viti, e anche sotto padrone, ma era suo zio, però. Quando facevamo nomadismo ci hanno pescato una volta a Sale, erano le tre di notte. Ci fermano e ci chiedono “Da dove venite?”. “Da Voltaggio”. “E dove andate?”. “A Pieve a Pignola”. “E cosa avete?”. “Abbiamo le api”. “Le api? E a quest’ora?”. “Eh sì, perché devono arrivare là, le mettiamo a posto, devono essere calme perché come arrivano partono subito e dopo mezz’ora arrivano già col loro materiale… Ci metta un po’ un orecchio…”. Quando ha sentito: “Andate, per l’amor di Dio!”
Alle sei eravamo già a casa a lavorare sotto padrone. Da Pieve a Pignola, giù nel Po, stavamo ad aspettare, le aprivamo con calma. Allora ne spostavamo otto per volta: quattro dietro nel carrettino e altrettante nella macchina. Prima avevamo la Simca, poi una Opel. Facevamo tre quattro viaggi. Prima prendevamo un camion, ma troppa spesa! Un anno ci ha preso trentamila lire.
Dove oggi ci sono tutti i supermercati, ne hanno aperti tre e ora ne fanno altri due, allora era tutto pieno d’acacia. Disfano tutto!

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Vecchi strumenti da apicoltura. C’è anche lo stampo per fogli cerei usato dal padre di Giacomo La ricca collezione di Giacomo e Amelia di francobolli dedicati alle api

GIACOMO: Facevamo l’acacia poi l’altro miele tutto insieme, poi con mio fratello Alfredo abbiamo cominciato a portarle su nei boschi, allora facevamo anche il castagno. Lì c’erano tanti lamponi. Passavamo il fiume con gli alveari a spalla. Un’ora si dormiva, eravamo stanchi, non se ne poteva più!
C’è stato un momento che ne avevamo trentacinque cassettine e si facevano le regine, perché anche comprare le regine, non vanno più bene come una volta.
Avevi le regine nuove, ogni favo c’era una regina…

Novi Ligure, dicembre 2007

 


Alfredo, il “Bisio di Bosio”
(colloquio con la figlia, Giuseppina Bisio e la moglie, Maria Guido)

Quattro generazioni di lavoro con le api

GIUSEPPINA BISIO: “Diceva mio padre che Filippo, il fratello di mio nonno Cesare, aveva fatto il militare a Torino e aveva comprato per suo padre una prima arnia moderna, quella con lo spazio-ape. Erano gli inizi del secolo scorso. Mio bisnonno è nato nel 1860, lo so perché c’è ancora la tomba di famiglia, ed è morto nel 1922. Doveva avere già le api. Mio nonno Giacomo era del 1894 ed è morto nel 1980. Mio padre diceva che i Bisio qui ci sono arrivati, che non è un cognome di qui.
Mio padre ha imparato con mio nonno, ma sia mio nonno, sia mio zio, sia mio padre non tenevano le api assieme: ognuno aveva le sue. Ognuno aveva il suo sistema, il suo modo di lavorare, il suo modo di osservarle, poi mio zio e mio padre facevano i trasporti assieme. Mio padre era precisissimo, pretendeva l’ordine. Mio zio è diverso. Mio zio riusciva a tenere più api, mio padre le teneva meglio. A fine anni ‘80, quando è cominciata a arrivare la varroa, è venuto il tecnico di Aspromiele e ha detto: “Alveari belli così non ne ho mai visti”. La cera la portava a Bologna da Piana, e anche lì gli dicevano che una cera bella così, così pulita, non l’avevano mai vista . Mio nonno diceva che a sei anni mio padre le api se le gestiva già da solo: aveva già le sue arnie. Diceva che mio padre stava delle ore a guardare, aveva quella passione. Ha fatto sempre l’apicoltore come mestiere, solo quello. Ha vissuto di miserie, anche a guadagnare niente. Ne aveva cento, centoventi, ma parliamo degli anni quaranta, cinquanta, sessanta. Poi c’era da lottare per vendere il miele. Mio padre si è mantenuto solo con l’apicoltura. Lui non voleva sentir parlare di fabbriche né di niente, voleva solo rimanere qua.
Noi dalle api con lui ci andavamo, però non è che abbiamo mai fatto niente, lui non voleva. Voleva fare tutto lui. Io più di tanto non mi ero mai interessata, ma quando ci siamo trovati lì ad avere le api, che lui era morto, prima ci ha pensato mia mamma, poi sono andata a seguire i corsi di Aspromiele e poi, un po’ con mio zio, un po’perché nelle api più o meno ci sono nata, sono andata avanti.

MARIA GUIDA: Io sapevo quando un alveare non ha la regina, perché müsa, sapevo tutto, ma non potevo toccare perché era geloso delle api, amava più le api che i suoi in casa.
Avevamo un po’ di vigna, io andavo tutto il giorno nella vigna. Lui andava alle api e io da sola nella vigna. Ho sempre fatto la contadina. Io andavo anche a fare i servizi.
I suoi vecchi erano gente che fin da quei tempi leggevano il giornale. Lui leggeva sempre sempre sempre.

Fratelli Bisio

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Nel 1947 a una festa del Consorzio Agrario di Alessandria, Alfredo è col telaio in mano, a destra nel gruppo vicino all’arnia aperta Alfredo Bisio a un’esposizione

Fratelli Bisio

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Alfredo Bisio con le sue api Diploma del Corso di Apicoltura frequentato da Alfredo ad Alessandria nel 1947

Un grande lavoro con pochi mezzi

GIUSEPPINA: Mio padre le api le spostava, le portava alla Cervesina, a Pavia, poi le portava a Masone, a Voltaggio, a Predosa. Poi con l’aiuto di un grosso apicoltore della zona le portava qualche volta anche nel Brugneto.

MARIA: D’inverno le tenevamo a Capriata, vicino a dove oggi c’è l’autostrada, e facevamo il miele di acacia. A Masone facevano un po’ di acacia e il castagno.

GIUSEPPINA: Smielava nel posto e lo vendeva tutto. Nella cascina dove l’ospitavano, gli davano una stanza; questo fino all’anno prima che è morto, fino al ‘95. Dal ‘58 al ‘95. Smielava lì, poi venivano tutti con i barattoli e lo prendevano con la cera e tutto. Poi il miele si pulisce. E dopo non si sarebbe più potuto fare…Entrava in amicizia con una cascina, tutti gli anni gli portava le api, in ogni posto. Era come esser di famiglia. Noi a Masone ci andiamo ancora adesso a trovarli. Gli dava per affitto un po’ di miele, le portava anche su nella Bocchetta, in cima, e in una cascina a Voltaggio.

MARIA: Noi non ci ha mai mandato via nessuno. Anche a Bassana le abbiamo portate. Erano tutte divise, quindici di qua, venti di là, venticinque da un’altra parte. Poi ne avevamo qui a Bosio nel prato, un posto al sole…
Dove c’è la cartiera, le abbiamo portate per più di vent’anni. E a Masone, dove portavamo le api, hanno poi venduto il pezzo di terreno su cui erano posizionate le api. Ci hanno fatto uno stabilimento in cui fanno i mobiletti per le navi e lì avevamo le api; venivano a prendere il ferro lì vicino e quello di Masone ha detto: “Nessuno si è mai lamentato, non hanno mai morsicato nessuno”!

GIUSEPPINA: Ci lavorava la gente e non davano fastidio. Io, a Casaleggio, dove abito le ho attaccate a casa, come da qui a lì, e mio figlio, che adesso ha ventitre anni, quando era bambino ci giocava a pallone e non l’hanno mai punto.

MARIA: Ma lui, quando andava in un posto guardava le direzioni delle api, come si dovevano mettere, che non dessero fastidio a quelli della casa.

GIUSEPPINA:
Il nonno aveva la vigna, però ha sempre avuto le api anche lui. La gente allora si contentava di poco, non c’erano le spese che ci sono adesso. Trasportavano le api sul carro.
Mio padre per arrotondare andava anche a Genova con quelli che portavano il vino, e intanto si faceva clienti per il miele e… portava anche il miele.
Io sono nata nel ‘59, però mi ricordo, negli anni 60, quei vasetti in cartone su cui c’era quella capsula… Li portava in Liguria anche perché a Genova il miele d’acacia non lo facevano. Lo vendeva anche a latte, magari ad altri apicoltori. Produceva l’acacia, il castagno (a Voltaggio, a Masone), che veniva venduto proprio come castagno.

MARIA:… Ma non lo volevano, perchè era troppo amaro. A Casaleggio, dove s’è sposata lei, le portavamo e facevano puro castagno, due melari pieni. Adesso non ce n’è più. C’è appena il gusto, perché ci sono i castagni malati. Poi faceva l’erba medica a Gavazzana, dove fanno le sementi di erba medica e la vergadoro a Cervesina, vicino a Pavia. La teneva per dar da mangiare alle api, ma la vendeva anche. Cristallizza subito. Ricordo che cagliava il latte.

Il Cavalier Traversa

GIUSEPPINA: La macchina non l’aveva, aveva un’ape con cui girava. Quando doveva trasportare prendeva in affitto un camion oppure chiamava qualcuno; loro aiutavano, lui aiutava loro, con i camion che portavano vino. A volta pagava anche.
Con i Bisio di Serravalle erano amici, si frequentavano. 

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Alfredo Bisio, secondo premio per il miglior miele di produzione italiana alla prima edizione del Concorso “Giulio Piana” a Castel San Pietro Terme, nel 1981. Ricorda Giuseppina: “Al primo anno non avevano categorie, avevano fatto un primo, secondo e terzo posto, e basta. La prima fu una ditta di Montalcino, secondo mio padre poi ci fu una medaglia di bronzo.
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Giuseppina Bisio, quarta generazione di apicoltori

Il Cavalier Traversa era uno che faceva tutto. Era un ambiente dove andavano là e non c’entravan niente, si lisciavano l’uno con l’altro. Traversa faceva anche per prendere dei voti. Poi c’erano le varie correnti…Il consorzio di Alessandria però funzionava perché mio padre ne vendeva tanto di miele. E’ iniziato tutto quando, negli anni 50, non c’era ancora la mutua per i contadini com’è adesso. E poi era iniziato quel giro e lui si era impegnato con Traversa. Si erano conosciuti lì.
Mio padre andava d’accordo con tutti. Traversa insegnava a fare apicoltura. Facevano una festa tutti gli anni e lui faceva sempre aprire un’arnia e tirare su i telaini senza maschera, senza niente. Lo faceva fare a mio padre, il quale la puliva bene prima, che non facesse il colpo quando si apriva. Poi un anno mio padre non è potuto andare perchè era morto un suo zio e doveva andare al funerale. Ci è andato un altro, ha aperto l’arnia male e ci fu un fuggi fuggi…
Usava arnie da 12 e mettendo il distanziatore le adattava a 11, il melario a 10 così ci stava più miele. Le arnie se le faceva da sé. Credo che mio zio facesse la stessa cosa.

MARIA: Diceva sempre che Don Angeleri diceva che ci vogliono i nidi grandi e i melari piccoli, se si vuol fare del miele. Leggeva sempre “L’apicoltore” e don Angeleri. Ne parlava sempre.

MARIA: Lui aveva le mani tozze, le dita corte, però prendeva le regine con una delicatezza…Una volta ha preso un fiammifero, l’ha toccato un po’ nel miele e poi si è messo lì e ha tolto tutti i pidocchi alla regina, ne ha tolti 13!

L’ultimo raccolto

GIUSEPPINA: E’ morto il 7 maggio del ’96. Era un anno che c’era stata una fioritura tardiva, alla fine di maggio. Aprile era sempre piovuto e le api non potevano uscire, e lui diceva: “Quest’anno io non lo so come va a finire” e poi è morto il 7 maggio. Pioveva, l’acacia era indietro ed è fiorita verso il 20 e c’era una fioritura, una fioritura… abbiamo fatto un sacco di miele.

Bosio, dicembre 2007

 




Alfredo e Giacomo Bisio nel ricordo di Francesco Panella

“Io ho iniziato l’apicoltura nel ’77, e mi pare di aver conosciuto Alfredo Bisio nel ‘78-‘79, anche perché abbiamo cominciato nell’80-81 ad organizzare la festa del Miele: avevamo un’Associazione di vallata, che era l’Associazione Apicoltori Val Lemme, con 20-30 apicoltori, e Alfredo era il “professionista” della zona. Giacomo già allora non stava più in valle e l’ho incontrato e conosciuto dopo molti anni. Sembra una sciocchezza, ma stando a Novi, era “lontano”.
Alfredo l’ho conosciuto in due modi: l’ufficiale, che era quello dell’ambito del consorzio apistico di Alessandria, ed il privato. Alfredo era lì, ha sempre partecipato alle iniziative del Consorzio.
Poi ho anche preso e sono andato a casa sua. Era una casetta piccola, linda, tenuta nel massimo ordine, nel massimo risparmio, una casa da apicoltore. Ho cominciato a passare alcune serate a casa sua a chiacchierare. Lui in me vedeva l’uomo di cultura, l’uomo delle classi alte, ed aveva capito che potevamo fare delle cose insieme. Non mi ricordo chi ha fatto la proposta per primo, io allora avevo un pick-up, un Peugeot 504, ed abbiamo cominciato a fare alcuni viaggi. Io ci mettevo il mezzo perché lui aveva solo l’Ape. Poi andavamo a vedere le api insieme. Non ho lavorato tantissimo con lui, però ho smielato con la piuma perché lui smielava con la piuma, e poi parlavamo…
E’ un uomo con una grande tensione interiore, un grande nervosismo, una diffidenza montanara, che è poi è la cosa che trovi anche da suo fratello, Giacomo, e da sua cognata Amelia. Una diffidenza che viene da un mondo dove tutto quello che ti puoi aspettare è l’aggressione. Però se riuscivi a entrarci dentro… io ho passato bellissime ore con Alfredo.
Lavorandoci insieme aveva quest’ansia, non riusciva a comunicare, non riusciva perché andava nel dialetto, un po’ perché faceva fatica a concettualizzare. Però, poi, grandi discussioni sull’apiscampo, sulla cassa da 12… io gli ho comperato le casse da 12 di castagno, fatte da lui 50 anni prima. Ad alzarle vuote ci voleva una schiena più forte di quella che avevo io. Fatte di mille rattoppi, mani di smalto… Ed un grande ordine, lui è la persona da cui ho imparato l’ordine nel lavorare, la disposizione degli attrezzi sempre in un certo modo. Io ero un ragazzo, avevo fatto lavori da dipendente, quello era il mio lavoro nuovo, lo guardavo, da lui era un imparare guardando.
E poi quello che ho imparato veramente da Alfredo è a osservare la natura. Alfredo guardava. Aveva questa capacità di uno sguardo che non doveva mai farsi vedere dagli altri. Lui guardava, ma tu non dovevi accorgerti che lui guardava…Osservare gli alberi, le casine, qualsiasi cosa, lui guardava. E guardava le api. La cosa bella, sia con lui che in seguito con suo fratello Giacomo, è che andavamo a chiacchierare guardando le api. Poi c’era la moglie, Maria, che mi offriva il caffè.
Alla sera lui si sedeva lì, guardava il volo delle api, in realtà secondo me guardava un mare di cose… Da come atterravano, lui diceva “Domani piove”: tutte le altre cose che Alfredo guardava le ho poi capite, ma come faceva a dire che domani pioveva, non l’ho mai capito!

Giacomo trova la serenità nelle api, nell’accudire; ha piccioni, anatre, oche, tortore, gatti, c’è un mondo in quella cascina. Quando gli hanno rubato le capre, sua moglie Amelia ancora un po’ ne moriva d’infarto. Perché lei era affezionata alle sue capre. Loro trovano una grande soddisfazione, un grande equilibrio e un grande senso della vita nella loro cascina, molto bella.
Giacomo l’avrò conosciuto nell’85, però i rapporti più stretti son venuti più avanti. Li ho aiutati a vendere il miele. Amelia è andata a servizio a sette anni da una famiglia genovese. Io sono genovese e mi immagino la crudeltà che può avere avuto una famiglia genovese negli anni quaranta-cinquanta…
L’apicoltura viene dal papà di Giacomo e Alfredo. In realtà non c’era un’attenta gestione del nido. Io non ho mai capito Giacomo come lavora. L’ho frequentato, ma non facendo lavori insieme sulle api. Giacomo ha alcune regole, ha sei o sette grandi regole. Una è che alle api bisogna star dietro.Quando gli dai da mangiare gli devi dare il meglio, quindi gli devi dare il miele di acacia, e questa cosa viene da don Angeleri. Quando qualcuno sta male gli devi dar da mangiare quello che hai di meglio in casa. Seconda regola, coi melari si aggiunge spazio soltanto quando lo spazio che c’era è pieno; il melario di Giacomo, come di Alfredo, è un terzo più grande di uno normale, poi non importa se è da dodici o da dieci, perché tu vai a vederlo di frequente. La terza cosa è che tutte le primavere bisogna lavare tutte le casse. Giacomo tutti gli anni le lava dentro con la soda e travasa le api. Passa l’inverno a raschiare i suoi melari, che devono essere perfetti. Quindi una gran cura delle condizioni generali, non una gran gestione del nido, qualche sciame che si acchiappa, un grande spazio nella cassa da dodici, regine meno spinte. Io andavo a travasare i bugni, c’era un anziano che me li teneva tutti gli anni, andavo a comprarli negli anni ‘80 e forse anche più avanti. Ed era proprio un’altra razza. Erano api più scure, più aggressive, molto robuste e con uno sviluppo più contenuto. Gli trovavi tanta braula. Ed erano “sciamose”. Quelle di Alfredo non erano così, era un’ape locale, selezionata, dove lui ogni anno, su 100 casse, metteva quelle 10-20 regine che servivano a rifare il sangue, che venivano da Bologna. Le api delle famiglie di Alfredo non erano bionde, erano le api di qua, quelle che son sparite negli anni ’90.

Quello che Alfredo e Giacomo avevano di buono è l’osservazione attenta dei posti, che poi raggiungevano con questi alveari enormi, pesantissimi, e con i mezzi più improbabili. La cosa interessante di Alfredo e degli apicoltori nomadi dell’epoca, che ne fa veramente dei pionieri, è che con questa poca facilità del muoversi loro osservavano, osservavano, osservavano, e poi trovavano dove mettere le api. Cosa che oggi ci sembra scontata, ma che li ha salvati, gli ha permesso di vivere di apicoltura: portare quindici alveari con tre viaggi, o trenta alveari con l’ape a Rossiglione piuttosto che a Masone. Oppure Giacomo con la macchina famigliare, in cui ci stanno quattro alveari, e con il carrettino dietro, in cui ce ne stanno altri quattro, e con questi otto alveari fare tre viaggi in una notte, lui e la moglie, a spostare queste tombe…e avevano gran bei posti! Giacomo arrivava al Ticino a fare la prima acacia con questa sua mega-attrezzatura, loro conoscevano le fioriture, osservavano.
Alfredo faceva il nomadismo con la sua ape su cui caricava sei o otto alveari. Non aveva la patente.
Alfredo ha vissuto di apicoltura. Vendeva direttamente. Aveva la vigna. La casa era la sua. Aveva i conigli, le galline. Era una micro-azienda agricola a quei tempi, la vigna era giusto per fare qualche damigiana in più oltre quello che consumava lui; l’orto era un bell’orto. Lui vendeva direttamente, ma vendeva tanto e a tanti clienti. Recuperava le latte dal panettiere per vendere il miele all’ingrosso a qualche apicoltore.
E poi allora c’era Traversa che faceva un po’da smistamento. (Giovanni Traversa, di Castelnuovo Bormida, fu il primo presidente della Coldiretti di Alessandria e parlamentare democristiano nel 1968). E lì aveva tutta questa clientela.

Una volta abbiamo fatto una presentazione dei prodotti del CONAPI a Milano; Lucio Cavazzoni (presidente del CONAPI) mi ha chiesto, dopo una cena e un assaggio, di fare una testimonianza di cinque minuti: “Preparati: tu fai l’apicoltore, e porti una testimonianza di quando hai incominciato, com’è che ti sei innamorato dell’apicoltura”. E io ho preparato una cosa breve, di quattro-cinque minuti, in cui parlavo di Alfredo che guardava le api e mi diceva che tempo faceva, di Alfredo che mi diceva “le mie api mi conoscono” e io avevo capito che era il contrario, che era lui che conosceva le sue api. E alla fine, in questo posto “fighetto” di Milano, coi giornalisti “fighetti”, mi si è presentato un signore di 60-70 anni (parlo di 7-8 anni fa), elegante, col farfallino, giornalista. Mi ha detto: “Ma lei sta parlando di Bisio di Bosio!”. Io non lo avevo citato, non avevo detto il nome. Lui andava da Milano tutti gli anni a comprare il miele da Alfredo!”

Alessandria, 5 dicembre 2007