Storia

Carlo Locca: Il cristallo nella roccia

| Carlo Locca: Il cristallo nella roccia

a cura di Paolo Faccioli, gennaio 2008

Premessa

Nel trascrivere questa testimonianza, ho scelto di attenermi abbastanza strettamente alla audioregistrazione che ne avevo fatto, salvo qualche taglio di parti ripetitive e qualche limatura di poco conto per rendere un po’ più scorrevole il discorso. Ogni volta che tentavo di trasformare il parlato di Locca in un italiano irreprensibile, sentivo venir meno la carica di espressività, la radice montanara della sua esperienza, la toccante intensità della sua comunicazione, che però io avevo avuto modo di ascoltare dalla viva voce. Come sarebbe stato per chi l’avesse semplicemente letta? Non gli avrebbe potuto sembrare solo un modo di esprimersi grezzo e faticoso? E nello stesso tempo, non avrei rischiato di dare al lettore colto un’idea sbagliata di Carlo Locca, sicuramente una persona come se ne incontrano poche, creatore tra l’altro, nel suo paese, di un sorprendente complesso di esposizioni entomologica, etnografica, mineralogica, zooloogica? Mi sono anche consultato con uno storico di professione, esperto in storia orale: Giorgio Delle Donne, di Bolzano. Mi ha confermato che mi stavo trovando di fronte a un dilemma classico per chi ricostruisce la storia partendo da fonti orali, ma che non c’era la soluzione al mio dilemma: avrei dovuto fare una scelta. Probabilmente una registrazione video, che non avevo messo nel conto iniziando questo lavoro, mi avrebbe alleggerito in parte di questo dilemma e avrebbe risolto un problema di archiviazione, ma avrebbe posto altri problemi di circolazione e diffusione dell’ informazione raccolta).
Spero che chi legge questa testimonianza possa, andando oltre le asperità linguistiche, condividere le ragioni della mia scelta, che ha privilegiato la dimensione espressiva sulla chiarezza formale.
Carlo Locca

Carlo Locca a ventisei anni, nel 1964.
Era già quasi arrivato a quattrocento alveari

Carlo Locca
Uno degli apiari di Carlo Locca a Guardabosone, nel 1964

Apicoltore a dieci anni

“Proprio già da ragazzino, io sono sempre stato legato al mondo degli insetti, non per niente che poi, al di fuori dell’apicoltura, ho portato avanti in quegli anni lì la collezione degli insetti. E’ stata considerata una delle cinque più grosse del mondo, la collezione che ho qui. Avevo dieci anni, facevo la quinta e mi bastava già vedere da lontano queste cassette d’api degli apicoltori che c’eran sul posto. Poi un giorno mi son deciso, sapendo che c’era un apicoltore in un paese vicino, perché al mio paese, essendo del paese stesso, nessuno mi avrebbe venduto uno sciame.
Io sono proprio nativo di qui, originale piemontese, tipico di qui. E ho dovuto andare in un paese vicino, che è Postuma, da un certo Battista Cagna. Questo qui aveva già ottant’anni, era un apicoltore non grosso, aveva una decina di cassette d’api, e già da ragazzino ho comprato la prima cassetta. Sono andato su in piena estate, con un gerlo, l’abbiam caricata su, non so più cosa me l’ha fatta pagare, comunque l’ho portata giù. L’ho portata a casa e son riuscito ad aprirla malgrado le morsicate che ho preso: son stato gonfio per parecchi giorni perché non avevo l’esperienza dell’apicoltura e nessuno dalla mia famiglia aveva le api. Non avevo proprio nessuna nozione, avevo soltanto la grande volontà. In quel periodo lì io andavo a servire messa qui dal prete, e gli ho raccontato che volevo tener le api. E il prete mi ha detto: “Ti do io un libro, un libro di Don Angeleri, proprio il primo che ha fatto”. Avevo dieci anni, adesso ne ho settanta. Grazie a quel libro lì, che io leggevo giorno e notte, dalla teoria del libro io poi passavo alla pratica, e sono andato avanti. L’anno dopo, che io avevo undici anni, è morto uno che aveva una cassetta o due, ma ho prelevato anche un mucchio di cassette vuote, e lì, con undici anni, ho dato il via con cinque o sei famiglie di api. Non per niente che dalle fotografie che ho qui da vedere, con sedici anni avevo già un apiario di cento famiglie, dislocate in due o tre posti, ma ancora all’interno del paese. Sono arrivato all’età dei ventotto anni che mi sono sposato, e avevo già quattrocento famiglie di api. Allora iniziavo già l’apicoltura, avevo già il camion; ma la mia mentalità, la mia ideologia essendo di aver voglia di fare da solo- solo con la moglie dopo essere sposato- acquistavo i terreni, perché ho trovato una grande difficoltà all’epoca a ottenere i terreni in affitto. In un paese sotto, qui a Serravalle, mi han mandato a chiamare dal sindaco perché le mie api gli mangiavano l’insalata… E’ vero che andavano sull’insalata, ma andavano su il mattino presto per succhiare la rugiada per la necessità dell’acqua. Eppure il sindaco quasi mi ha cacciato via, e di lì mi sono invogliato: mano mano che mi allargavo con gli apiari, acquistavo i terreni. Non per niente che ancora oggi io ho parecchi apiari dislocati, ma tutti nella mia proprietà. E comperavo dei terreni più che tutto dove non c’erano da disturbare altri apicoltori. Mi isolavo senza dare fastidio anche alla gente. Comperavo dei terreni enormi, addirittura di diecimila metri proprio per inserire le api in mezzo, per non avere fastidio e anche per non disturbare gli apicoltori.

Allargare la mentalità montanara

L’apicoltura l’ho imparata più che tutto dalla gran mia esperienza, perché 50 anni fa l’apicoltore che c’era sul posto era una roba incredibile a tirargli fuori un qualchecosa. Io tentavo di andar lì in qualche maniera da questi apicoltori. Anche perché il mio paese è un paese che è da anni che c’erano apicoltori, non grandi apicoltori ma apicoltori che avevano già cinquanta-cento famiglie. Ma non c’era nessun mezzo di spulciare qualche nozione… L’ho fatta proprio soltanto con la gran esperienza: a forza di manipolare api uno requisisce la grande pratica. Poi la grande volontà, il grande attaccamento all’apicoltura… Quando uno è attaccato all’apicoltura per forza è costretto a imparare. Ho fondato poi l’Associazione che c’era qui in Valsesia-Valsessera. Ho fatto il presidente per lunghi anni e lì si è fatto parecchi corsi. Io stesso ne ho fatto nei paesi qui in giro e nel Biellese, andavamo in diverse parti a valorizzare l’apicoltura. Non per niente che l’apicoltura in Valsesia in quell’epoca lì contava. Minimo minimo, contava più di millecinquecento cassette di api. Oggi si è ridotta a non più di cinquecento cassette di api in tutta la Valsesia, dal basso fino in cima si è ridotta. Allora noi la sostenevamo e non per niente che io nell’associazione ho sempre cercato di portare a vedere dove c’era già l’apicoltura evolutiva come Fossano e la provincia di Varese. Organizzavo queste gite proprio per poterli portare a visitare queste grandi apicolture, perché avevo già la mentalità di fare anche noi, nel posto, un qualche raggruppamento. Ho interpellato il Consorzio Agrario dell’epoca, e il Consorzio Agrario è arrivato a un punto che mi diceva: “Noi vi forniamo il materiale” (vale a dire telaini e cassette prese dalle ditte come la Lega) “ma purtroppo è un argomento molto difficile perché noi dobbiamo tenere dei locali”. Avevo già interpellato, spinto dal Consorzio Agrario, per poter fare l’ammasso del miele, per poter valorizzare sempre di più. Però non son riuscito, perché nelle nostre valli, nei nostri piccoli paesi c’era un’ideologia dura, malgrado che noi eravamo aperti per insegnare. Ma la gente, la gente di montagna è gente dura, malfidente, vuol governarsi la sua piccola proprietà come son le api, ma non vuole affidarsi a dare il suo bene insieme agli altri. Non per niente che io ho sofferto molto da ragazzino, facendo una fatica enorme, facendo degli sbagli… che poi, una volta che uno fa lo sbaglio, la seconda volta si è corretto. E poi avendo una grande quantità di api uno per forza che è costretto ad imparare. Fino a ventotto anni andavo in fabbrica: era la tessitura di Crevacuore che era a Borgosesia all’epoca. Facevo sempre dalle 6 alle 2, per poter avere tempo, magari fino a mezzanotte le sere d’estate, di raccogliere sciami. Delle giornate raccoglievo fino trenta sciami al giorno. Sono partito da subito con casse Dadant Blatt. Più che tutto all’epoca si usavan da 12, era proprio un’ideologia così: da 12 che poi si è ripensato bene che da 12 fanno meno scorta nel nido, vanno su più presto nel melario in primavera quando non serve fare ancora scorta nel nido, e quella da 10 è più maneggevole nel trasporto, e ho abbandonato tutte quelle da 12 inserendo soltanto tutte quelle da 10. Mi costruivo io le cassette. Andavo da un falegname, mi compravo le assi, mi arrangiavo un po’, così alla meglio. Con ventotto anni io mi sono sposato. Sono venuto a casa dal viaggio di nozze, che l’ho fatto a Roma, e il giorno dopo subito pensavo alla moglie, perché anche la moglie all’epoca lavorava ancora in fabbrica: di dar l’impegno anche alla moglie. Subito ho comperato un altro terreno per formare un altro apiario. Dopo un anno che c’eravamo sposati anche la moglie è rimasta a casa dalla fabbrica e siamo andati avanti, ho comperato altre api, dopo un anno avevo già cinquecento famiglie, ci siamo inseriti completamente tutt’e due all’apicoltura con un camion da trasporto, ma l’ideologia che avevo io non era quella di fare dei grandi trasporti, perché il trasporto delle api è sempre un massacramento della famiglia. Spostavo pochissimo, pochissimo, proprio nella parte giù della pianura, perché dopo aver fatto la robinia non c’era più castagno e tiglio, allora ero costretto di portarle su, sicchè cercavo posti almeno almeno da aver due fioriture. Guardabosone è un paese enorme per il tiglio, ci sono vallate intere.

Carlo Locca

In apiario,1981

Carlo Locca
In visita sociale alla Cooperativa Piemonte Miele a Cussanio

Cambiato l’ambiente, il clima, le api

La robinia c’è sempre stata. Meno, meno, adesso sta aumentando enormemente perché la robinia adesso prende il sopravvento anche delle piante autoctone. Dove avanza la robinia fa morire anche il castagno. Qui si arriva a fare, certe annate, se non piove, tra castagno e tiglio (che è una fioritura quasi insieme), quattro o cinque melari. Qui è una zona buonissima ancora oggi. E’ cambiato molto, perchè i primi anni dell’apicoltura, che portavo già le api giù in pianura prima della fioritura dell’acacia, mese di marzo-aprile avevo già i melari pieni di ciliegio. Io sono arrivato ad avere già dieci quindici anni di apicoltura e non sapere ancora cos’era il nutritore! L’inverno era un inverno terribile, molto più duro di adesso. C’era magari mezzo metro di neve sui tetti e davanti, cercavo di tirarla via un po’ per farla sciogliere un po’, perché le api in una bella giornata venivano fuori anche con la neve a orientarsi. Per non proprio distruggere, cercavo di spalare un po’ la neve davanti l’entrata. Ma poi veniva la primavera, e il mese di marzo-aprile era una cosa da non credere, aprivo il coprifavo di quelle cassette, quelle famiglie bollivano fuori! Avevo degli sciami che erano alti un metro, una cosa da non credere. Oggi non lo credo più io, che pure ho toccato con le mani. Avevo fuori delle barbe, come si dice, davanti alla cassetta, non per il contenuto del miele che manda calorie, ma per il contenuto delle api che la famiglia si era sviluppata nell’interno della cassetta. Avevamo cassette da 12 telaini, la covata era su otto nove dieci telaini da in cima in fondo
Oggi è cambiato molto, le famiglie non sono più quelle di una volta numericamente parlando, ma anche i raccolti non son più i raccolti di una volta. Io sono arrivato a un punto che non mettevo mai il foglio cereo tutto intero, mettevo soltanto una striscia sopra, anche perché comperando terreno, comperando camion, comperando le api, avendo già due figli, avevo anche difficoltà magari quell’anno coi soldi, e allora non potevo né comperare cassette nuove né fogli cerei e allora mettevo solo una striscia sopra, eppure…In una giornata in quegli anni lì mi riempivano un melario di acacia, in una giornata sola dalla mattina alla sera mi trovavo il melario pieno completamente, c’era un profumo di acacia in quegli anni lì che dava la nausea…dappertutto si sentiva, anche nell’interno delle case la sera arrivava dentro ventilato, adesso non si sente quasi neanche più. Quando volavano, che poi si posavano per terra caricate prima di entrare nella cassetta, era un tappeto di api. Poi piano piano siamo sempre andati al declino. Io queste giornate che ho visto in quell’epoca là, di riempirmi un melario in un giornata sola, non mi è più successo.
Non c’è più il clima di una volta. Io non so ben descrivere cosa sta succedendo: prima roba non son più le famiglie di una volta, e poi abbiamo indebolito troppo geneticamente, con questi incroci… Sembra che si rinforzi, ma geneticamente con tutte queste regine allevate artificiali, fecondate anche artificialmente, abbiamo indebolito enormemente anche la genetica dell’ape, non è più l’ape di una volta. Quando cambiamo una regina sembra che faccian gran che, ma all’epoca io avevo delle regine con quattro anni, ed erano ancora efficaci. Perché erano regine, non so ben descrivermi la parola, autoctone, famiglie naturali. L’ape stessa geneticamente era un’ape endemica del territorio . Oggi abbiamo incrociato troppo e siamo andati troppo al di là . E non abbiamo più i climi di una volta. L’inverno era inverno ma poi quando veniva la primavera, era primavera. Io mi ricordo bene da ragazzino, già al mese di maggio viaggiavamo scalzi in giro, già coi pantaloni corti, ma adesso delle volte gela ancora, c’è il rischio che ci gela con l’acacia fiorita. E poi c’è qualche cosa nell’atmosfera che non permette più alla pianta di svilupparsi, non tira più su dal terreno. C’è da dire una cosa, che in quegli anni lì l’agricoltura era ancora fiorente, c’era molta gente che lavorava in agricoltura e concimava anche il terreno. Concimando il terreno le pianta di ciliegi e di pesche davano maggiore sviluppo, sia nel fiore che poi nel frutto, perché la pianta stessa dal terreno tirava questa sostanza organica che l’uomo procurava tramite il concimamento anche giù in pianura. Abbiamo ancora fioriture di ciliegio selvatico, però non c’è più il clima e poi non abbiamo più le famiglie. I primi di aprile, quando fiorisce non abbiamo più le famiglie forti com’erano in quell’epoca là. La sciamatura avveniva ai primi di aprile, alla fine di aprile oramai stava già cessando, e invece adesso il mese di aprile è ben di rado che abbiamo ancora sciamatura. Comincia qualche cosa in maggio. Siamo indietro di un mese proprio perché la famiglia non è più pronta, non si è più sviluppata come in quegli anni lì e non abbiamo più queste fioriture. Dopo il tiglio e il castagno c’era ancora molta erica (calluna). C’era l’edera e la vergadoro, che c’era in pianura ma anche qui. Siccome l’erica è un miele che indurisce subito, finita la fioritura del castagno e del tiglio tiravamo giù i melari e togliendo i melari erano costrette a immagazzinarla nel nido. Facevano delle scorte, arrivavano fino all’ultima covata e riempivano ancora quando la famiglia andava in glomere. La famiglia non rimaneva mai su vicino al coprifavo, andava sempre giù in basso dove scarseggiava il miele perché alle api non piace molto svernare sul miele opercolato. Cerca sempre di svernare nelle parti dove non c’è miele. E difatti noi le famiglie le trovavamo pochissimo, andavano tutte giù in basso a svernare. Non avevamo manna, la manna non esisteva, questa metcalfa che c’è adesso, le montagne erano tutte piene di erica. E invece dalla parte della pianura, nella bassa, dove le ho ancora oggi, lì facevano vergadoro, io non la tiravo giù perché è un miele non tanto gradito, non tanto conosciuto.

Carlo Locca

In visita alla Cooperativa Piemonte Miele a Cussanio. Locca è a sinistra, Pietro Quarone, primo presidente della Cooperativa, a destra coi baffi; alla sua destra, Eugenio Castrini

Carlo Locca
A tavola con l’amico Porrini

Chi comprava il miele della Valsesia

I primi anni quando non avevo ancora un grande quantitativo c’era una ditta a Varallo che vendeva questo miele, un certo Bertòli, che vendeva “Miele Monte Rosa” e il prezzo dell’epoca era centocinquanta-centosessanta lire. Avevo 17-18 anni. Io avevo poi cinque o sei cassette di api che mi ha regalate, che mi servono adesso per far questi musei. Cassette Langstroth, il nido era grande come il melario. Più che tutto, non era un apicoltore il Bertòli, era un commerciante. Aveva quelle cinque-sei cassette di api e le portava su in alta Valsesia, da Varallo caricavano su un carretto, anche per fare un po’ vedere, cinque-sei cassette che portava avanti e indietro. Perchè tutto veniva commercializzato in Alta Val Sesia al tempo del turismo, ma allora il villeggiante era tutto differente di adesso. Poi alla fine questa ditta è cessata. Lui comperava tutto dagli apicoltori viciniori, era un miele molto genuino, fatto da noi alla buona. Poi c’era ancora l’Ambrosoli: acquistava da noi apicoltori più che tutto miele di acacia e poi alla fine ha smesso di prendere il miele dalle nostre parti. Si è trattenuto solo miele estero, prima caricava camion di miele interi. E i prezzi si aggiravano sui duequaranta, duecinquanta, duesessanta al chilo. Son trent’anni fa. Essendo giovane, quando uno vive su una determinata cosa, ci facevano gola, ci facevano effetto, dopo aver caricato questo miele, queste latte, aprire questa valigia piena di banconote… era il suo rappresentante che veniva, e mi ricordo che assaggiava tutti i fusti, aveva un’esperienza enorme sul miele. Determinato fusto, mi diceva: “adesso io ti porto una tanica o due, da cinque o dieci chili. Me la riempi, che è per noi della famiglia”. Lui sapeva da quel gusto, da quella gradazione, da quell’umidità che era un miele più particolare, per lui era il migliore di tutti gli altri . Assaggiava tutti i fusti ed era bellissimo perché si prendeva poco, ma almeno si vendeva. E poi ultimamente io sono stato molto amico col Porrini. L’ho conosciuto come commerciante, io fornivo tutto a Porrini, saldavamo i soldi ma più che tutto noi si condivideva proprio, avevamo una fiducia, l’intimità di amicizia… Lui se aveva un gruppo lo portava a vedere i miei apiari perché io ho sempre avuto degli apiari non come si usa adesso, da quaranta-cinquanta famiglie dislocate in diverse parti. Io sono arrivato ad avere apiari di duecento famiglie insieme, eppure facevo dei raccolti enormi, perché quando c’è la fioritura, c’era per tutti: anche duecento famiglie, ce n’era per tutte. Poi veniva quel periodo di crisi anche per loro: lì bisognava stare attenti forse perché l’apiario grosso era più soggetto a saccheggio. E al Porrini questa cosa qui piaceva molto, mi ha portato cinesi più volte, io mi ricordo questi cinesi che mi dicevano “Voi avete tante api e non avete fioritura, mentre noi in Cina abbiamo poche api ma tanta fioritura”; m’ha portato coreani, libici, dalla Libia, dove portava giù i nuclei, perchè malgrado le sue spiegazioni voleva sentire le mie parole, che io mi riferissi a loro per dargli una spiegazione. In Libia il primo anno che ha mandato giù questi nuclei gli sono morti tutti bruciati dal calore. Travasati nella cassetta normale, non mettevano il coprifavo, che faceva da isolante: mettevano sopra la lamiera e il calore enorme del ferro riscaldato dal sole della Libia scioglieva completamente la cera, il miele, le api. Tutto colava fuori dalla portina davanti. Porrini ha avuto delle sberle enormi, più volte gli davano la colpa a lui, difatti ultimamente è quello che l’ha buttato anche a terra, perché non gli hanno più pagato gli sciami.
Bertòli più che tutto cercava per il cliente che non era valsesiano, che veniva su dalla zona di Torino, di Milano e conosceva più che tutto il miele di acacia. E poi acquistava il miele misto tra tiglio e castagno, ma molto poco e di malavoglia. Era sempre stata una difficoltà a venderlo perché la gente del turismo dell’epoca dalle nostre parti, non lo conosceva. In Valsesia all’epoca si usava molto al mattino per colazione e quando veniva questo turismo spalmavano un lembo di burro naturale prodotto lassù con sopra questo miele, e il miele di acacia gli dava quel profumo, invece il miele di castagno con quel marognolo non piaceva.
Anche l’Ambrosoli apprezzava sempre di più il miele di acacia, acquistava solo una percentuale in miele scuro; sapeva che noi avevamo un misto, l’assaggiava e prendeva il misto com’era. Invece Porrini capiva molto di più e siccome qui il tiglio fiorisce prima, allora si cercava di smielarlo per avere un po’ di tiglio, il Porrini aveva una clientela enorme e lo mandava in Germania e Austria dove cercavano solo mieli scuri. Non lasciava niente, piano piano pretendeva tutto, massimo bisognava aspettare i soldi un periodo di tempo, che facesse il giro, mentre già l’Ambrosoli faceva fatica enorme perché già dall’epoca i mieli scuri li faceva arrivare dall’Argentina, lo confezionava, faceva le caramelle e lo pagava già poco, disprezzava i nostri mieli per prendere già i mieli dell’Argentina. E invece il miele di acacia lo prendeva perché era un miele un po’ particolare un miele fino, profumato, E’ andato avanti per parecchio tempo, poi non ha mai preso più miele da noi e ha soltanto preso miele dall’estero. Io l’ho interpellato ancora, sono stato là parecchie volte, “Oh ma voi chiedete troppo, il miele estero costa poco”.
Adesso la gente consuma molto di più ma all’epoca si faceva una fatica enorme a vendere il miele. Qui al paese c’è stato un periodo che eravamo dodici apicoltori. Ogni apicoltore aveva la sua clientela, un po’di parentela anche. E si faceva una fatica enorme enorme enorme. Anche perché c’è stato un periodo che abbiamo cominciato a fare questi corsi, abbiamo formato questa associazione e lì gli apicoltori sviluppavano dappertutto, non per niente che la Val Sesia era arrivata ad avere 1500 cassette di api, e lì di miele ne circolava molto di più, adesso si ridotta a quattro-cinquecento, il colpo di grazia è stata questa varroa. Il piccolo apicoltore che si era avviato è scomparso completamente, è rimasto ancora quella testa dura come un po’ la mia. Noi oramai ci siamo avviati come mestiere, siamo stati costretti a tirare ancora avanti, però oggi come oggi io nell’apicoltura non la vedo più bella. Stiamo sempre declinando, declinando un po’ tutti gli anni numericamente come famiglie e per motivi di difficoltà enorme, inquinamenti, non si riesce a capire. Adesso stanno bagnando, non riesco a capire come nessuno se ne accorga, nessuno ne parli, stando dando veleni contro queste zanzare con gli elicotteri, e poi c’è il bacillus thuringiensis che parassita tutte le larve, non solo degli imenotteri e lepidotteri e di altre famiglie, ma sta distruggendo anche l’apicoltura. Perché non abbiamo veleni che preservano l’ape, difendono solo l’agricoltura ricca, l’apicoltura non ha mai avuto difese neanche governative. Non siamo mai stati un grande popolo da difendersi. Mi vengono qui i francesi d’estate a prendermi il miele. Per colpa che bagnano i girasoli, il tornasole come loro dicono, l’apicoltura in Francia è declinata oltre il cinquanta per cento…
Quando abbiamo formato questa Associazione avevo all’incirca sui trent’anni, trenta-trentacinque anni fa. L’associazione c’è ancora, ma non ci sono più dentro con gli impegni che ho adesso in tutti gli altri campi non ce la faccio più, qui mi passano più di cento scuole l’anno a visitare i musei , e ho settant’anni suonati!
Eravamo i primi, era una cosa un po’ nuova, una cosa un po’ incredula. La gente ci stava perché portavamo delle nozioni di apicoltura già evoluta, non industriale, io la chiamo apicoltura evoluta in confronto a questa apicoltura, a questa mentalità dura che c’era in tutta la Valsesia-Valsessera, ma anche nel Biellese. Noi eravamo all’avanguardia, avevamo già cinque-seicento cassette di api e portavamo addirittura a visitare i nostri apiari, , e allora sentendoci parlare il piccolo che aveva otto- dieci cassette apriva gli occhi, ci seguiva: uno è grosso perché ha una mentalità evolutiva. E’ servito molto, ma la mazzata più grossa l’ha data la varroa. L’apicoltore piccolo è rimasto a terra completamente e noi ci siamo ridotti a malapena a neanche più la metà, abbiamo ancora le cassette vuote: di lì c’è stato un disgusto enorme, e questa varroa non siamo mai riusciti a debellarla perché tutti gli anni l’apicoltore ha sempre un declino enorme, un danno enorme.
Quando ho tenuto le api su in alta Valsesia, su a 1600 metri, dove ho anche l’altro museo e il piccolo museo di apicoltura là, se uno non prendeva uno sciame da quegli ultimi relitti di apicoltori che sono rimasti. quelli che avevano ancora i bugni villici, portar su una famiglia a svernare là non resisteva: gli veniva subito la dissenteria già da ottobre-novembre. Bisognava proprio prendere le api che si sono acclimatate in quella zona lì, noi qui abbiamo indebolito troppo la genetica. Capitava soltanto più tardi che facevamo arrivare le regine, se no di regine ne avevamo a volontà e talmente sciamavano talmente avevamo celle reali. Quando una famiglia indeboliva, mettevamo dentro le celle reali, avevam sempre delle regine nate naturali, fecondate naturali.
Il solo sistema che noi riuscivamo a contenere la sciamatura era quello di mettere il melario presto, già a fine di marzo, anche quando non c’era ancora raccolto, ma per dargli spazio. Un tantino frenava. Arrivavo al mese di aprile che avevo famiglie con su due melari, però avevamo una quantità di sciami maggiore che adesso perchè le famiglie all’epoca erano forti che era un piacere. Uno che ha quasi sessant’anni di storia delle api, c’è una differenza che uno che l’ha toccato con le mani quasi non crede più.

“Mancarmi il Porrini mi è mancato un braccio”

Porrini ha sempre portato api qui in Valsesia, a Guardabosone, a Crevacuore, e anche il figlio. Noi abbiamo un legame di amicizia, non per niente ho qui l’invito che gli dedicano questa stanza (la sala riunioni presso la sede dell’Associazione Produttori Apistici della Provincia di Varese), sono sempre stato legato con Domenico come un fratello, e anche oggi con Mauro, il figlio, abbiamo un legame enorme. Ha difficoltà a venire quassù, mi manda a vedere:” Vai un po’ a vedere se dobbiam portar su il secondo melario”, sono io quello che faccio una scappatina per dargli un aiuto. Noi siamo come una famiglia, per me mancarmi il Porrini mi è mancato un braccio, nell’ambito dell’amicizia era una collaborazione sincera.
Io mi ricordo molto bene che era venuto su in montagna a vedere quelle api che resistevano a quell’altura lì, a milleseicento metri. Un anno gli ho portato giù uno sciame perché anche lui voleva allevare di quelle regine lì e poi le ha allevate per rinforzare anche la genetica dell’ape. Oggi basta che produciamo… ma abbiamo perso enormemente. E’ ancora un’ape, ma ha perso tutti i suoi crismi. Quando si parla di ape, sembra che ci sia un’ape unica, invece erano delle razze dislocate in diversi territori dell’Italia, ognuna aveva un endemismo favorevole per il clima e la fioritura che c’era nel posto, questa è una cosa una delle più importanti ma oggi più nessuno ci crede.
Adesso io più che tutto ho passato un po’ l’apicoltura alla figlia, lo faccio io l’apicoltore però il nome è il suo. Oramai abbiamo solo un centinaio di cassette. Io a parte l’apicoltura, a parte i musei, faccio ancora parecchi corsi di frutticoltura in giro ma non mi sento più e ho voglia di riposarmi se scampo ancora qualche anno, gli anni pesano anche a me, però vedo che l’apicoltura specialmente da noi a nord sta morendo lentamente lentamente lentamente sta morendo. Ci vorrà magari ancora trenta quarant’anni”.

Testimonianza raccolta a Guardabosone il 3.12.2007

Nota
Carlo Locca accenna più volte, in questa testimonianza, ai suoi musei. Si tratta innanzitutto del Museo Etnografico Walser. I Walser sono una popolazione di origine germanica, migrata nel 1200 dall’alto Vallese, e inseritasi anche in Val d’Aosta e in alcune zone del Piemonte, come appunto la Valsesia. La moglie di Locca è di origine walser. Il museo è situato in una frazione dell’Alta Val Sesia che domina la Valle Vogna, a 1545 metri di altezza, in una tipica casa walser del 1640, e riproduce l’antico stile di vita di quella minoranza etnica. Sono undici stanze da visitare. Esiste un piccolo settore dedicato all’apicoltura come si svolgeva all’epoca della casa, che include un torchio del 1620 per la pressatura del miele. All’ epoca ogni famiglia aveva 7-8 bugni villici e il miele era conservato dalla famiglia per uso medicinale. In quegli anni le malattie da raffreddamento si guarivano solo col miele molto balsamico di quelle zone.
Nel piccolo borgo di Guardabosone, all’inizio della Valsessera, ha invece sede una serie di sale, frutto di cinquant’anni di incredibile lavoro di raccolta del Locca, dedicate a mineralogia, paleontologia, zoologia. Le teche con gli animali imbalsamati sono apribili, perché è negli intenti di Locca che anche un bambino cieco possa, toccando, avere l’ esperienza per esempio di un leone. Attigua al museo, una “casa dei mestieri”, situata in un edificio storico del 1600. Ogni ambiente è dedicato a un mestiere: fabbro, falegname, ciabattino, tessitore, carrettiere, la cantina del vino. Alcuni bugni rustici posti su un lobbiale annunciano lo sviluppo di un settore dedicato anche all’apicoltura.
In una stanza c’è una ricchissima collezione entomologica (più di 100mila specie classificate, alcune delle quali portano il nome del Locca), e una biblioteca scientifica e storica.
“Il giorno che mi canteranno la ninna nanna, lascierò tutto questo. Lo lascio a chiunque si impegni a conservarlo, a non smembrarlo. In fondo non è roba mia, è roba che appartiene alla storia”.

Ringrazio Massimiliano Gotti, tecnico di Aspromiele, che mi ha segnalato l’esistenza di Carlo Locca, senza peraltro sapere bene nemmeno lui cosa sarei andato a trovare. In effetti, nessuno degli apicoltori, dirigenti e tecnici piemontesi che avevo interrogato prima di avventurarmi in Valsessera, sembrava ricordarsi del Locca o conoscerlo. Ma il suo nome compare tra quelli dei soci fondatori di Aspromiele, nell’atto di costituzione, il 16 ottobre 1985.