Storia

Apicoltura novarese – Storia

|  Apicoltura novarese

a cura di Paolo Faccioli, giugno 2006

Un apicoltore del novarese che si trovò a prendere in mano l’attività paterna, senza però aver avuto il tempo di essere istruito e formato dal padre, era stato costretto a rivolgersi ad un altro apicoltore della zona per ottenere dei chiarimenti. Un terzo apicoltore, informatone, ebbe a esclamare: “Ma cosa dai retta a quello là, che è solo trent’anni che ha le api!”.
Due tra i fondatori dell’apicoltura novarese si trovarono a spiare col binocolo altri due eminenti apicoltori della zona, per riuscire a carpirne i ben custoditi segreti.
Questi due episodi, che ci sono stati riferiti da apicoltori eredi di aziende storiche, sono emblematici degli inizi dell’apicoltura novarese.
Si tratta di un’apicoltura di matrice contadina e operaia, ben diversa da quella colta di nobiluomini, studiosi, esponenti di professioni libere, prelati che si erano riuniti fin dai primi del ‘900 per scambiarsi informazioni sull’allevamento delle api (il Marchese Borsarelli di Rifreddo, il conte Caissotti di Chiusano e il Professore Edoardo Perroncito, Preside della Facoltà di Veterinaria di Torino, Monsignor Enrico Schierano: un gruppo in cui comincia ad emergere la figura di don Giacomo Angeleri, per altro verso intimamente legata al mondo contadino). Questa è invece un’apicoltura figlia della povertà, nata da uno sforzo di riscatto economico, che a tratti contribuirà a fornire un’alternativa all’emigrazione, e dunque non è strano che le informazioni più preziose vengano tenute riservate, perché costituiscono veri e propri segreti di sopravvivenza.
Al tempo stesso tali “segreti”, non arrivando da conoscenza accademica o da fluida e diffusa circolazione di informazioni, sono il prodotto di una lunga e accurata osservazione, di un’esperienza che ha bisogno di tempi lunghi per potersi sedimentare. L’intimità di questi padri dell’apicoltura con le loro api è tale che è impressione comune dei loro eredi di non aver scoperto niente di veramente nuovo rispetto a loro.
Tuttavia, l’apicoltura novarese contemporanea è considerata tra le più raffinate in Italia, ed è luogo comune attribuire ancora agli apicoltori novaresi una certa ritrosia a rivelare le loro tecniche: un luogo comune ormai infondato ma che testimonia di un misto di ammirazione e invidia di cui vengono fatti oggetto.
Tra gli elementi che rendono rilevante l’apicoltura novarese, la meccanizzazione innovativa per gestire grossi flussi nettariferi, l’uso oculato di ibridi a seconda del tipo di zona, la raccolta regolare di dati (per esempio la registrazione anno dopo anno delle pese dei carichi di melari estratti in ogni apiario), lo sfruttamento di una efficace sequenza delle fonti nettarifere, la capacità di standardizzare le procedure assegnate agli operai esterni e di controllarne gli effetti, tutta una serie di accorgimenti e modifiche delle attrezzature legate all’alveare, una comprensione raffinata delle esigenze dell’alveare in relazione alle diverse zone e alla sequenza di flussi nettariferi e una capacità di gestire lo sviluppo delle famiglie per portarle a raccolto, l’oculata gestione del magazzino rispetto alle onde del mercato.

Oggi l’apicoltura novarese conta almeno grosse 35 aziende professionali e un totale di 20mila alveari denunciati (in realtà si può realisticamente pensare ad almeno 30/40 mila).

Si può pensare a una produzione media di 22-23 Kg di sola acacia per famiglia d’api, e circa 20-22 Kg di solo castagno, a cui si aggiungono tutte le altre produzioni.

Un sodalizio tra Piemonte e Lombardia

Sono gli anni che seguono la guerra. E’ inverno. Un camion con un carico di miele avanza sulla strada a due corsie, diretto a Torino, per raggiungere la cioccolateria Tobler di Via Aosta. Per fortuna sulla corsia opposta è raro che passi qualcuno: i conducenti sono costretti a scendere di tanto in tanto a grattare il vetro per recuperare la visibilità; il camion non è riscaldato e sul motore sono appoggiati dei refrattari, che di tanto in tanto vengono trasferiti in cabina perché i conducenti si possano riscaldare: sono due apicoltori, Pietro Poletti e Carlo Soldavini, l’uno piemontese, di Cavaglietto, l’altro lombardo, di Lonate Pozzolo, uniti da anni da un sodalizio legato alle api.
Hanno cominciato prima della guerra, fin da subito utilizzando arnie razionali, le Dadant Blatt a 12 telaini. Dei bugni rustici venivano eventualmente acquistati a Vigevano per essere subito travasati nelle arnie, e a memoria dei figli c’era poca tradizione di apicoltura rustica nella zona.
C’era però una grande dimestichezza con le api. Gian Carlo Moroso, classe 1945, che fu operaio nell’Azienda di Angelo Valsesia, ricorda che la passione per le api in famiglia iniziò col bisnonno, morto nel 1957 a 89 anni. Passione che fu ripresa dal nonno, morto nel 1968, che aveva una cinquantina di alveari.
Un terzo delle famiglie di Cavaglietto- ricorda Ezio Poletti, figlio di Pietro, avevano alcune arnie sotto il balcone.
Cavaglietto era anche il paese dei Fratelli Piana, separati dai Poletti da una storia di rivalità e di “segreti apistici”, che coincise con la divisione del paese in due fazioni pro o contro un prete, don Grandina, che era cugino della moglie di Piana figlio.
La guerra e la resistenza avevano messo a dura prova Poletti e Soldavini. Sia i fascisti che i partigiani andavano da loro a requisire il miele. Ogni settimana una latta da 85 chili.
Fu così che Pietro Poletti interrò il miele in un contenitore di cemento della capacità di 3 tonnellate, per poterlo ritirare fuori a guerra finita, quando i prezzi erano alle stelle e il miele veniva pagato 450 lire al chilo.
Alcune famiglie milanesi sfollate, arrivate in zona a causa della guerra, costituirono il nucleo di un certo giro di mercato, che, una volta instauratosi il rapporto di fiducia, continuò col loro ritorno a Milano.

Apicoltura novarese
Apicoltura novarese
Apicoltura novarese
Figure 4, 5, 6 – Rispettivamente la pagina 1, 2 e 3 di una lettera di Domenico Porrini a Giuseppe Diale, Presidente di Piemonte Miele, in cui si critica il Decreto Prefettizio che regolamenta il nomadismo in provincia di Novara.

Gian Carlo Moroso ricorda il progressivo assumere importanza della robinia. Ai tempi del bisnonno erano soprattutto la colza e il trifoglio incarnato a riempire i melari, fioriture seguite dal bosco e dal castagno. I fiori delle stoppie apparivano, in assenza di diserbi, dopo il granturco, e servivano a rimpinguare le famiglie, e anche la calluna rendeva, poiché i boschi, allora, venivano puliti. Moroso ricorda le tenute di Maria Luisa d’Austria nei comuni di Cavallirio e Boca come all’origine dell’espansione della robinia, che prese piede sulle rive delle rogge e nei prati, dove veniva piantata, affiancandosi all’ontano e alla betulla, nella piana umida, e al castagno in collina.
Siamo dunque alle origini della produzione specializzata di monoflora a partire della robinia, che nel novarese ha una qualità di particolare purezza e trasparenza. Furono soprattutto Piana e Porrini a caratterizzarla sul mercato.
Gli acquirenti di Poletti e Soldavini, fin da prima della guerra (anni Trenta), erano stati un commerciante genovese, Geminardi, la ditta Ambrosoli e l’industria del torrone veneta, a cui si aggiungeranno in seguito quella cremonese e quella di Alba.
Dopo il lievitare dei prezzi seguito alla guerra, il commercio con Ambrosoli riprese. A metà giugno un incaricato della ditta Ambrosoli presentava un’offerta scritta per il quantitativo di miele disponibile. Occorreva accettare subito, non c’era appello.
Se si rifiutavano 250 lire al chilo, l’anno dopo (si era nel 47-48) ci si trovava costretti a venderlo a 230.
Col ricavato Soldavini padre comprava tutti i buoni postali che riusciva a reperire in tutti i piccoli uffici dei dintorni.
Dal 47 in poi cominciano le importazioni di miele dall’estero, che erano state bloccate dalla politica autarchica del Fascismo. Il prezzo continuerà ad aggirarsi sulla base di 250 lire al chilo fino alle soglie degli anni 60, dopodiché si produsse un incremento.

Per sottrarsi al rapporto esclusivo con Ambrosoli, Carlo Soldavini si rivolse anche a Don Angeleri e alla sua “Casa del Buon Miele” di Torino, oltre che alla Tobler, società italo-svizzera con sedi a Berna e a Torino, che assorbiva fino a un centinaio di quintali per azienda, con forniture scaglionate nel corso dell’inverno che costringevano però Soldavini e Poletti a tenere il miele stoccato in magazzino. Era opportuno “ungere” il direttore, che sosteneva la superiorità del loro miele in quanto non avrebbe prodotto schiuma nel cuocere. Nel 74 la Tobler chiuse per fallimento, ma lo fece in modo signorile, pagando tutti i fornitori. Ma i nostri apicoltori persero una commessa da 100 quintali l’anno, e Carlo Soldavini lo venne a sapere leggendo il giornale.

Il prezzo del miele continuò ad aggirarsi intorno alle 330-350 lire al chilo fino al 70, e i nostri apicoltori lavoravano in due per avere lo stipendio di un operaio. Nel 76 ci fu un’annata record, in cui si produssero 200 quintali di acacia con 400 famiglie, nel 77 se ne produssero 16 quintali, fu un’annata pessima in cui piovve costantemente durante la fioritura e molte famiglie morirono di fame. In compenso, fu un’annata record per il miele di montagna. Quell’anno i prezzi decollarono. Porrini pagava il miele 1200 lire al chilo. Il castagno, che iniziava in quegli anni a perdere la sua connotazione generica di “miele scuro” e a trovare uno sbocco sul mercato tedesco (soprattutto Porrini, insieme ad Ambrosoli, ne faceva incetta) venne conferito alla Cooperativa Piemonte Miele, con un ottimo ricavo. Altro acquirente era Geminardi, di Genova, che lo indirizzava alla concia del tabacco.
Il 77 fu un anno cruciale perché entrambi i padri, Pietro Poletti e Carlo Soldavini morirono, e i figli, Ezio Poletti e Luigi Soldavini, tornarono all’attività che avevano interrotto, creando due aziende distinte.
Nel 1981 la produzione di castagno venne pagata 3350 lire al chilo, e commercializzata in Germania tramite Porrini.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si assiste a quella che gli apicoltori locali vivono come una vera e propria colonizzazione da parte di aziende nomadi emiliane, riproducendo un conflitto che è vecchio quanto l’apicoltura. Iniziò una battaglia. Un decreto prefettizio del 79, poi modificato nell’87, stabilì un massimo di 20 alveari stanziali per apiario e una zona di rispetto di 2 km di raggio.
Apicoltura novarese
Figura 2 – Ordine di 80 Quintali di “Acacia purissima” alla Ditta Soldavini da parte della Tobler: siamo nel 1966 e il prezzo offerto è di 377 lire al chilo.

All’arrivo degli emiliani si tese ad attribuire, negli anni successivi, anche un certo inquinamento degli ecotipi locali con la perdita delle caratteristiche più “rustiche”.
Nei primi anni ottanta prende l’avvio quella che diventerà una tra le più rilevanti aziende della zona, quella di Nino Scacchi, abruzzese, oggi presidente dell’Associazione Apicoltori della provincia di Novara.
Un’altra crisi del miele si ebbe nell’82, con un crollo dei prezzi in coincidenza con le grosse produzioni di quell’anno: il castagno passò da 3350 lire a 1800 (offerte da Ambrosoli), e, dopo pochi anni, l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl produsse un rifiuto del miele, sospettato di essere radioattivo, che era stato prodotto in abbondanza. Anche l’annata successiva fu generosa e solo nell’88 si finì di vendere il miele dell’86.
Oggi le aziende del novarese sono maestre nella razionalizzazione del nomadismo. Per Poletti e Soldavini, che fin da prima della guerra si attrezzarono di un camion Dodge, il nomadismo fu inizialmente un modo di procurarsi scorte di miele per le famiglie, che portavano a casa in latte petroliere. Gli apiari erano attrezzati con una baracca di due metri e mezzo per quattro, che serviva per l’estrazione del miele e fungeva da magazzino per i melari, e in cui venne poi piazzato un bidone da 4 quintali. I due prepararono delle arnie per il nomadismo, con le pareti in abete,i fondi in acacia e le traversine dei fondi in gelso, dotate di rete e con una rastrelliera per tenere distanziati i telaini durante il viaggio, che all’inizio veniva praticato senza il melario, abitudine presa in seguito. La transumanza andava dalla pianura fino alle prime montagne intorno al lago d’Orta e fino all’Ossola.
Gian Carlo Moroso ricorda come fu Angelo Valsesia, nella cui azienda soprattutto lavorò, il padre, insieme a Porrini, della cosiddetta “doppia acacia”, cioè lo sfruttamento di due fioriture scalari spostandosi di quota. La prima acacia veniva raccolta cioè nella zona di Cressa, la seconda a Gargallo. Poi c’era il trasporto in montagna (a Macugnaga e Vallanzasca) e a metà luglio la discesa –per la solidago-a Frassino e a Camino sul Po. Infine il ritorno, con le arnie più deboli trasportate nel Monferrato. Angelo Valsesia, di Santa Cristina di Borgomanero, gestiva circa 350 alveari ed era apicoltore di professione. Per un periodo fu anche sindaco di Borgomanero. Morì di una cancrena ai piedi e il suo patrimonio di api venne interamente rilevato da Porrini. Fu tra i grandi apicoltori che misero a punto il nomadismo razionale e, utilizzando il Monferrato come serbatoio di covata primaverile di rinforzo, la gestione delle popolazioni d’api per portarle a raccolto.