Storia

Apicoltura nel Roero: i Taberna

|   Storia dell’apicoltura nel Roero: i Taberna

a cura di Paolo Faccioli, Monteu Roero, dicembre 2007

(colloquio con Mario Taberna, con qualche commento di Claudio Cauda)

Pietro TabernaMARIO TABERNA: Pietro, mio papà, è del 1892; io sono del 1929. Lui andava a Torino in corso Giulio Cesare, dove c’era Don Angeleri, prima d’la guera. Prima era corso Mosca, dopo è venuto Corso Giulio Cesare. Aveva 10-15 alveari, faceva il contadino, aveva il terreno. Io ero un ragazzino. Eravamo cinque, e quattro fratelli su cinque eravamo apicoltori, solo il maggiore ha fatto un’altra strada. Qua c’era Don Pietro Sandri. Aveva le api dappertutto qua attorno. Aveva gli alveari da 14 telaini, a favo caldo che poi si son messi a favo freddo, e avevano anche gli alveari gemelli, ma lì erano già a favo freddo: si restringevano in mezzo così una produceva calore all’altra”

Favo caldo e favo freddo

CLAUDIO CAUDA: Il cambio da favo caldo a favo freddo avviene prima della seconda guerra mondiale, nel 1940 cambiano tutti.
L’arnia Dadant Blatt a favo caldo era presente in questa zona, non sappiamo bene il perché. E’ pensabile che l’arrivo delle arnie a sviluppo verticale sia avvenuto in modo disomogeneo. All’inizio del ‘900 c’erano tantissimi tipi di arnia in circolazione, ognuno ne aveva uno, ma l’arnia a favo caldo è quella che assomiglia di più all’arnia Sartori, che era diffusa nel Roero nella Langa e in tutta Italia, ed era una delle arnie di riferimento. Probabilmente l’arrivo dell’arnia a favo mobile, a sviluppo verticale e a favo caldo è avvenuto in Italia con la tecnica del Sartori. Poi ci si accorge che mettendo i telaini nell’altro verso le mortalità invernali sono molto ridotte e quindi tra il 1920 e il 1940 si girano a favo freddo perché si privilegia la salvaguardia invernale, avere tre volte nemmeno perdite: i conti sono presto fatti.

MARIO TABERNA: Mio papà li faceva anche lui, li facevo anch’io a mano, con la pialla. Abbiam provato che a favo freddo andavano meglio per l’inverno perché l’ape comincia da davanti e va sempre indietro, e il miele stava dietro. Invece a favo freddo non potevano attraversare da dietro andare avanti o da davanti venire dietro a mangiare, c’era la distanza. E c’è stato un anno, era dopo la guerra, verso marzo-febbraio, me ne son morte gelate, non son potute andare a mangiare e sono congelate. Ma facevan dei freddi allora, facevan degli inverni…

CLAUDIO CAUDA: A favo caldo l’ape presidia i posti caldi, il posto caldo per eccellenza è la parte davanti. Le scorte rimangono dalla parte dietro. Il problema si pone quando parte la covata, le api non abbandonano più il posto di covata, e quindi le scorte gli rimangono staccate dall’area di covata e loro muoiono, perché bisogna che attraversino il telaio per tornare indietro. Coi ritorni di freddo di febbraio tu hai una percentuale di mortalità del 10-20 per cento.

Bersezio, in Valle Stura, 1948 MARIO TABERNA: Cinquanta, anche di più. Quell’anno di venticinque alveari ne abbiamo salvati sei o sette: gli altri gelati, morti.

CLAUDIO CAUDA: Nelle arnie a favo freddo l’ape per tutto l’inverno fa una serie di travasi del miele dai favi esterni verso i favi centrali. Quando noi gli lasciamo il miele nel melario tende a tirarlo giù, nel centro quindi è molto più facile sopportare l’inverno, poi l’ape si sposta e a gennaio può far partire la covata nel punto di scorta. E’ molto più comodo spostarsi o da un lato o dall’altro.

MARIO TABERNA: Ma adesso questi inverni qua non sono più inverni, non sono più quegli inverni che le api stavano chiuse venti giorni e non uscivano. La neve, fuori, e quando uscivano, che dovevano depositare delle scorie, tante erano troppo piene, cascavano nella neve e gelavano. Adesso l’inverno non dà più noia, però se facesse almeno quindici giorni di gelo andrebbe meglio.

Tutte ‘ste case qua attorno avevano delle api. Quando è venuto su don Sandri erano ancora nei villici e lui le ha messe nei suoi alveari, gli dava un po’ di miele, ne aveva dappertutto: da Canale andava giù fino quasi a Ceresole. Era uno che camminava in bici. I preti allora avevano quei cappelli neri, grossi, e lui sembrava uno straccione. Aveva qualcosa per portare l’affumicatore, quando andava in bicicletta, aveva un passo… aveva sempre premura, ‘sto prete. Alto, grosso. Ha fatto la guerra negli Arditi, l’altra guerra. Gli arditi erano come le SS di una volta, dicono. Era un tipo che non si spaventava di nessuno. Ha ancora i nipoti qua. Dopo c’era Don Panera di Canale, io avevo uno smelatore di lui, aveva ancora le gabbie, era a due telaini da nido, era stretto. L’aveva venduto a uno zio di mia moglie, che me l’ha regalato.

Origini avventurose del nomadismo

Minòt (Domenico Bordone) a comensoss dop da me par. Mio padre aveva quei dieci, quindici alveari, questo qua faceva già il professionista. Dopo la guerra aveva cento alveari. Iera anco Porelli. Lui non ha più proseguito. Il primo nomadismo che ha fatto, andò assieme a Gervasio Brezzo a Argentera, a Bersezio. Era nel ‘47; nel ‘48 siamo andati noi con Porelli a Bersezio. Nel ‘48 abbiamo fatto il primo nomadismo in montagna, perché in pianura si andava già. Ma nel ‘48 abbiamo fatto niente.
C’era anche Vittorio Roero, era dell’’8 o del ‘9. Nel ‘47 sono andati su coi primi Dodge a carbone. E son partiti nella notte, quando han caricato c’era anche Bordone, Minòt, lui aveva già il 514, il camioncino. E’ partito, è andato su, ma era troppo carico. Minòt è andato su, ha scaricato,dopo è venuto giù. Mi pare che è venuto su fino a Pietraporzio. Minot ha caricato sul Dodge di Roero. Dal mattino sono arrivati su alle quattro dopo pranzo. E’ stato un macello. Han scaricato e poi le svuotavano, levavano le api morte, rimettevano i telaini dentro. Quell’anno lì hanno dato il miele tre volte. Erano le api di questo qua. Noi siamo andati su l’anno dopo, e abbiamo fatto niente. E nel ‘49 siamo soltanto andati qua in pianura, verso Pancalieri, Moretta, quelle zone lì, per il trifoglio e la menta. Siamo andati su in montagna nel ‘50, io e Gervasio Brezzo. E quell’anno lì avevamo 49-50 alveari in due. Dopo diciassette giorni sono andato su a vedere, perché a lui gli si era rotto un piede: le api fuori, tutto zeppo! Allora c’era un melario, non due o tre come adesso. L’abbiam levato, e si metteva di nuovo su il melario vuoto, ma oramai era troppo tardi, il raccolto era partito.
Dopo io ho cambiato lavoro, c’era mio fratello, ma io sempre avuto qualche alveare, quattro o cinque. E’ andato sempre solo in Valmaira, adesso quel fratello lì non c’è più neanche lui, ma ha portato giù tanto miele: era Franco, e aveva tre anni meno di me. Ha comprato persino qualche pezzettino per mettere le api, eh, ha lavorato molto. Io facevo il camionista allora, ma avevo sempre qualche alveare. Poi ho smesso di fare il camionista, ho fatto l’operaio a Carmagnola, alla Fiat, allora ho cominciato di nuovo con le api perché ne avevo un poche. Era una malattia quella lì! Quando c’era mio figlio, fino a quattro anni fa ne avevamo ottocento. Abbiamo cominciato a crescere nel ‘96, abbiamo comprato un camion dai Cauda, con la gru, poi dopo abbiamo comprato un altro camion, un Mercedes grosso, poi abbiamo preso un “Gigetto”. Era un prototipo del fratello di Claudio Cauda, Ferdinando. Era un motorino a cingoli che andava dappertutto.

CLAUDIO CAUDA: Era stato copiato da uno che vende motocarriole in Valvaraita.

MARIO TABERNA: Era una motocarriola. Ha usato quel modello lì, ha messo su un motore da venti cavalli: tutta un’altra velocità. Le forche sotto, il premicassa sopra: le banche stavano a posto, ferme. Noi le avevamo di legno, adesso ci sono di ferro.Andava in qualsiasi posto. Si usava sempre. Si andava a caricare poi si metteva sul camion con le rampe. Più veloce di una gru.
Io ho fatto l’operaio dall’’86 poi sono andato in pensione e aiutavo, dopo è il figlio che ha cominciato con me; io avevo un Daily, avevo già l’età e mi han levatola patente C e allora ho ancora la B. Si partiva con due camion, lo stesso carico. Il Daily aveva poca portata. 48 alveari su due camion, 48 e 48: uno dietro l’altro, si andava a scaricare o caricare.

CLAUDIO CAUDA: Una volta li abbiamo incrociati, loro avevano i due camion, e noi il camion con la gru. Quando eravamo a trecento metri noi siamo arrivati a scaricare uno un po’ più in qua uno un po’ più in là Quando siamo arrivati sull’autostrada loro stavano arrivando. Ci hanno impiegato cinque minuti in più, ma neanche, noi ne abbiamo scaricati 64, ma loro 96. Colla motocarriola, il dumper.

MARIO TABERNA: Ma aveva una mano, mio figlio, a guidarlo…
Mio padre ha fatto l’apicoltore fino al ‘47-‘48, poi dopo eravamo già noi. Al nonno gli piaceva andare anche lui. Quando andavamo a scaricare in montagna veniva su anche lui. Nel ‘48 avevamo 70-80 alveari. Mio fratello ne aveva 400. Da qua si partiva in bici, fino a 1200-1300 metri di altezza. 100,120 chilometri da San Damiano, andar su era ancora ciottolato, abbiam fatto tanta di quella fatica, ma non con le bici che c’è adesso quelle bici d’allora…rudimentali. Ce n’era una per famiglia.

Le strade dei monoflora

Il miele lo portavamo a Torino con quelle tolle quadrate da 25 chili, a Mautino, quello che faceva i torcetti, grissini girati bagnati con tanto miele dentro e anche un po’ di miele sopra e spruzzati di zucchero di canna grossolano, lo mettevano dentro a delle scatolette. Si pagava dazio allora, come il vino.Una volta ne abbiamo caricate molte, però avevo un amico che aveva venduto della legna a Torino e le aveva messe nelle ceste, un centinaio o più , ed era andato a caricare le ceste a Baldissero. Siamo andati a casa abbiamo spostato e abbiamo messo in mezzo tutto miele. Poi dopo, ceste tutto attorno. E siamo andati proprio lì da Mautino a scaricare. Abbiamo passato il dazio tranquilli: in mezzo c’era il miele, di qua e di là ceste piene di legna. Quello là ci ha pagato mezzo viaggio, avevamo già il camion noi e noi abbiamo portato il miele a destinazione ma abbiamo guadagnato una bella giornata. Perché allora il dazio era caro. Tutto pagava dazio. La roba usata, tutto ciò che transitava. Se passavano animali, galline e conigli si pagava.
Allora c’era l’acacia e il castagno e niente altro, poi in pianura si faceva un po’ di millefiori. O menta. E invece la montagna, allora non si poteva capire se era millefiori o rododendro, si faceva un raccolto solo. Invece se c’era il millefiori prima, poi il rododendro, erano le vere campagne da miele.
Se si faceva il castagno, in montagna non si arrivava più in tempo. Poi a fine luglio si andava in pianura.

CLAUDIO CAUDA: Allora nel grano veniva seminato il trifoglio. Il ladino. Falciavano il grano a fine giugno, e poi rigettava il trifoglio che diventava pascolo per gli animali.

MARIO TABERNA: Era bello, quando fioriva era tutto bianco. Ed era anche mellifero. Il castagno si faceva prima, un po’qua se ne faceva. Ma se si faceva il castagno qua, non si faceva la montagna. Facendo la montagna, poi si scendeva di nuovo qua a fare il trifoglio. Facendo il castagno qua, si poteva fare il trifoglio in pianura. O la menta.
Allora ce n’era molti apicoltori nella zona, c’era questo Roero qua, c’era Porelli, c’era un Belloccia, poi eravamo noi , un Gallo di Vallunga, c’è ancora il fratello, poi c’era Balla, Busso a San Bernardo, c’era uno a Cassinassa, tutti con arnie Dadant Blatt. Noi abbiamo cominciato a favo caldo e abbiamo continuato a favo freddo. Abbiamo preso il modello di don Sandri che era un modello a favo caldo, ho lavorato io e le ho girato tutte, ho messo un tappo da una parte, un’apertura dall’altra però allora non eravamo attrezzati come adesso, si lavorava così, via: però miele poco. Allora quando era proprio tanto, un melario di acacia, poi sul castagno un melarietto. Ma c’era solo un melario, neh, poi dopo si passava noi se ce n’era uno pieno si metteva sopra quello che era vuoto , si egualizzavano. Faccio ancora adesso così, quando vedo che una è troppo forte prendo il melario, telaini, api e tutto, lo metto sopra a quella che l’ha vuoto, che ha cominciato appena a salire.
Per non farle sciamare facevamo passare i cupolini (eliminavano le celle reali, ndr).
Poi si portavano in pianura, e soprattutto si riempivano bene sotto, perché allora l’inverno era lungo e freddo. Sì e no tre melari. Due mezzo andava bene.
Com’erano le api? C’era una qualità che erano più piccole. Noi ne avevamo che distante venti metri già ti beccavano. Ha fatto tanto di quel miele ‘sto alveare…

Il miele si faceva tanto a Bra, allora si vendeva sfuso e poi in montagna, alla gente del posto.
In montagna volevano il suo della montagna, perché veniva solido così. Ho provato un anno, ho preso un platò di legno, ho messo una carta velina dentro, l’ho riempita, dopo un mese potevo venderlo come burro, lo tagliavo, era rododendro, era bianco. E riempivamo bicchieri, io ne ho portato tanto a Bra nei bicchieri, con un pezzo di cera sopra e una striscia tutta attorno, i bicchieri tenevano un etto, un etto e mezzo. Tanti negozi a Bra, però ci voleva tanto di quel tempo, allora si riempivano così, non c’erano fusti col rubinetto sotto.
Si è capito che il millefiori era più scuro del rododendro, e si distingueva la melata d’abete, che non veniva solida. Si faceva dopo il rododendro in montagna. Lì compravano così. Qua per esempio, tra il millefiori di qua e quello di montagna preferiscono quello di montagna, tu gli dici è millefiori di qua, e invece lui di montagna: è chiaro, gli piace e va bene così. Quest’anno il miele di montagna ha un gusto che tira sulla mandorla, sa un pochino di mandorla. La maggior parte è melata, anche in montagna, non viene solida adesso.
Suo papà (di Claudio Cauda,ndr) ci ha insegnato a noi, io sono stato il primo. Se mi pungeva un’ape nel sedere mi veniva una testa grossa così. Poi dopo, poco per volta, adesso non me ne importa più. Se vado a guardarle io in primavera, senza maschera. Franco, il fratello di tre anni minore, in canottiera. Invece di accendere il soffietto, la sigaretta in bocca. Quando fumavo, la sigaretta bastava. Bisogna essere calmi. Le apro adagio, e dopo due colpi di fumo, però bisogna aver tempo, non bisogna aver premura. Io gli parlo assieme. Però ne ho una o due che sono bastarde. L’anno scorso ne avevo una…mi sono stufato, ho preso quella regina…patà…glie l’ho spaccata, ne hanno fatta un’altra, più calma.
Quest’anno ne ho prese da mio nipote, per cambiare la qualità, volevo incrociarle e infatti ne ho cambiate di regine. Io ho provato delle regine gialle, quelle che vengono da ReggioEmilia, ma sono porcherie quelle lì, non si muovono neanche.Non mi piacciono. Ci vuole l’ape che sia un po’ sveglia. Più sono cattive, più lavorano. Quest’anno una mia ha fatto cinque melari, però fetente. Ma solo quello lì, non quello vicino.
Busso, era il veterinario della zona, prima della guerra. Ho preso due o tre arnie, lui le aveva ben fatte, col suo tettino in legno. E anche davanti nella fessura che uscivano aveva messo tutti chiodini a mezzo centimetro, appena appena passava l’ape. Aveva un bel posto, perché allora l’acacia rendeva molto. Dietro c’è una rocca, faceva tanto di quel miele, alto sui 400 metri.
C’è ancora il nipote, Figlioli Andrea, che faceva l’autista ai pullmann e aveva le api. Poi quando è andato militare mio nipote, il fratello le ha vendute tutte, allora era quell’epoca coi fratelli Bordone. Han ricavato duecentocinquantamila l’uno, già allora, però i fratelli Bordone han preso cento, e allora ventisinc miliòn. Lui è del ’60, è andato militare a quasi trent’anni, nell’’88-‘89. Poi quando è arrivato da militare aveva smesso di studiare e son di nuovo cominciati con le api. Poi sono andati giù in Calabria…