| Apicoltura nel Monteregio
a cura di Paolo Faccioli, maggio 2007
La zona dove ha radici l’Apicoltura De Paoli è il Monteregio, tra Sesia e Ticino, che si estende da Briona fino a Grignasco. In quasi ogni cascinale della zona, fino alla metà del secolo scorso, era possibile trovare delle api. Dal proprietario al fittavolo, al salariato, qualche scurbìn lo possedevano tutti. Nella sola Briona c’erano quindici famiglie che avevano le api. Viene ancora ricordato un salariato agricolo, un certo Iaco, che a San Martino – l’11 novembre – data della tradizionale transumanza dei salariati e dei trasferimenti da un’azienda a un’altra, emigrò cun tri scurbìn ad avìe attaccati al carretto. Erano gli anni ’50. La scorba era un intreccio di giunchi a tronco di cono, con due manici. Lo scurbìn di avìe era una versione ridotta di questa cesta, adatta ad ospitarvi le api. Si usava preferibilmente la paia di segale, che serviva anche per le lettiere delle mucche, mentre la peggiore era considerata quella di riso. La forma veniva poi appoggiata a una tavoletta di legno, praticandovi un buco per permettere l’ingresso delle api.
Gli scurbìn venivano poi collocati sotto dei porticati o su delle mensole che venivano attaccate ai muri delle cascine. Gli ultimi che si ricordano nella zona, prima della sparizione definitiva di questo tipo rustico di dimora delle api, erano collocati, fino a una trentina di anni fa, sotto un portico a Casalbeltrame. Un altro tipo di dimora per le api era ricavata dalle cassette che solitamente contenevano 2 latte da 5 litri di petrolio lampante per i lüm dal petroli.
Gli sciami venivano anche ospitati in cassettine inchiodate apposta di circa 30 per 30 centimetri, a volte dotate di una croce orizzontale a cui le api attaccavano i favi. Queste cassettine erano senza fondo, e venivano sospese con un anello, permettendo alle api di entrare da sotto. La covata rimaneva nella parte superiore, e il prolungamento della brüs-cia (il favo naturale) che veniva costruita al di sotto di una cinquantina di centimetri (la lunghezza della cassettina) e riempita di miele, veniva tagliata con la lama lunga di un ransot (falce da fieno, con la quale i tenutari d’api, come si diceva, fiean la barba alle costruzioni di cera). Poi col patìn venivano schiacciati i pezzi di favo per separare la cera dal miele.
Negli anni ’30 (grazie probabilmente all’attività di promozione dell’apicoltura razionale svolta dal fascismo, che mirava a sradicare quella rustica) si andò diffondendo l’uso di arnie vere e proprie, la cui fabbricazione veniva commissionata a falegnami, fatto del tutto nuovo in un’economia in cui si tendeva a farsi tutto da sé. Costruite professionalmente, erano veri e propri mobili, col fondo staccabile, e potevano contenere 12 telaini. Il fondo staccabile rendeva sovrapponibili i corpi-cassa, proprio come con l’arnia americana di tipo Langstroth.
Fino ai primi del ‘900 era raro che qualcuno possedesse più di una decina di sciami. Il miele serviva principalmente per il fabbisogno delle famiglie. Ma chi negli anni trenta cominciò a dotarsi dei primi smelatori tangenziali a due telaini, rivelava già l’intento di vendere il miele.
Negli anni della guerra non c’era disponibilità di zucchero. C’è chi dice che il valore di una damigianina da 5 litri di miele di robinia fosse paragonabile a quello di una barossa d’rison, un carro da 15 quintali. Il miele era smielato di giorno in giorno, ed era praticamente nettare. A quell’epoca c’era l’obbligo dell’ammasso, ma si cercava di tenerlo fuori.
Già da prima della guerra si era formata, al di là delle colline, una tradizione di apicoltura intorno ai fratelli Piana di Cavaglietto. Chi durante la guerra potè rimanere a casa a produrre il miele, riuscì a coglier una grossa occasione economica. I Poletti, i Sottini, i Cattaneo erano le principali famiglie apistiche della zona.
Ai Piana era giocoforza ricorrere per approvvigionarsi di fogli cerei. Essi avevano uno stampo in cemento, e gli apicoltori portavano loro la cera, spesso d’opercolo (te lassi giò la mutüra, veniva loro chiesto) e riportavano a casa dei fogli di una cera più scura, estremamente plastica, ostica alle api, che gli apicoltori sospettavano essere tagliata con la paraffina, tant’è che poteva essere data alle api da costruire solo nei momenti di pieno raccolto: 400 grammi di fogli cerei per un chilo di cera. Per risparmiare, comunque, gli apicoltori utilizzavano il foglio cereo pieno soltanto per il nido, mentre nei telaini da melario ne utilizzavano una semplice strisciolina. L’unica alternativa ai Piana di Cavaglietto per la trasformazione della cera, sarebbe stato raggiungere la Romagna e rivolgersi agli altri Piana, quelli, omonimi ma non parenti, di Castel San Pietro, ma era considerato un viaggio troppo lungo.
Finita la guerra, era soprattutto Ambrosoli a raccogliere il miele. Vestito di grigio, da commerciante, si presentava con la bascula sul camion, per pesare il miele che prelevava in latte quadrate da 25 Kg. Intorno all’umidità del miele si svolgeva un duello. Ambrosoli usava agitare la latta e capire dal fluttuare interno del miele quanto alta fosse l’umidità, che l’avrebbe deprezzato. Per questo i suoi fornitori tenevano il miele all’esterno, di notte, per raffreddarlo e farlo sembrare meno liquido. Ma a sua volta, Ambrosoli, che soleva annunciare il giorno e l’ora del suo arrivo con una cartolina postale, ritardava a volte di diverse ore a presentarsi e il trucco allora non funzionava. Qualche anno avvisava in anticipo che non ne avrebbe avuto bisogno. Ma quello che tutti apprezzavano è che si presentava coi sold a la meòn, pagava sull’unghia.
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Una cartolina datata 28 luglio 1967 con cui Ambrosoli respinge un’offerta di 4 quintali di miele da parte di Gino De Paoli |
All’epoca si riusciva a riempire un melario di millefiori (in cui dominavano colza e ravizzone o trifoglio spadon) già prima dell’inizio della robinia. La robinia diventò un raccolto negli anni 50-60. Prima c’era soprattutto il trifoglio spadon. Non c’era bisogno di nutrire le api, che si sviluppavano bene da sole. Poco redditizia la medica.
Si lasciavano i melari fino alla brina dei primi di novembre, che bruciava i fiori, e a quel punto si tirava su tutto. Prima della guerra si tendeva a raccogliere tutto insieme. Dopo la guerra, soprattutto su sollecitazione di Ambrosoli, si divideva miele chiaro (soprattutto acacia) e miele scuro.
Dopo la guerra comparirono in zona i primi nomadisti, con i camion americani Dodge. C’era un apicoltore di Oleggio che si trasferiva in zona piantando la tenda. Giuseppe Dallari, che risiede nel Novarese ormai da anni, arrivava in zona col motocarro insieme al figlio Pietro dal modenese, così come Costanzo Mannelli, che inizialmente trasportava un’arnia per volta con un motom 50 a 4 tempi. Prima si mossero verso il Comasco e il Varesotto, poi nel Novarese. E dal mantovano, cominciò ad arrivare Oscar Baruffaldi.
C’era anche Remo Achino, che lavorava soprattutto nel biellese, molto aggiornato e istruito, legato ai Piana di Castel San Pietro e a Don Giacomo Angeleri, che oltre a produrre commercializzava e veniva a Briona a rastrellare il miele, soprattutto l’agasìa. Nel dopoguerra, produceva pappa reale per Cuba.
Cominciò in quel periodo la caccia alle postazioni e lo spionaggio, i pedinamenti di altri apicoltori per scoprire dove portavano le api: c’era persino chi seguiva, a bordo di una motocicletta e col volto coperto da un fazzoletto, i colleghi in transumanza. Una competitività molto forte si manifestava anche nell’accampare ciascuno rispetto all’altro una maggiore conoscenza delle api. Con Carlo Vidano, dell’Istituto di Apicoltura del’Università di Torino, che era allora molto giovane, si organizzavano convegni di aggiornamento. Gli apicoltori del Novarese, della Valsesia e di Biella confluivano per i loro incontri a Gattinara. Tuttavia, nell’ambito dei convegni, si potevano sentire battute come “non dare la mano a quello lì, che ha la peste”. Pochi erano veramente amici tra loro.
Una senso di unione tra gli apicoltori, l’idea di essere nella stessa barca, si produsse tra gli anni 80 e 90 con l’arrivo della varroa e la necessità di fronteggiarla. Poi però questo senso di unione venne meno nuovamente, e nell’ambito apistico si lamentarono furti, incendi di apiari e persino tentativi di infettarli con telaini colpiti da peste americana.
Oggi persiste una certa conflittualità che ruota intorno alla difficoltà a vendere il prodotto, e che si manifesta tra l’altro nella paura di essere oggetto di un inquinamento da antibiotici realizzato con l’esposizione al saccheggio delle api di miele alterato.
I De Paoli erano agricoltori. Il bisnonno aveva già delle api a Casina Pierina, che il figlio Andrea fu incaricato di seguire. Nel ’17, a otto anni, anche Carlo De Paoli, nipote di Andrea, ebbe il suo primo sciame: e dovette conquistarselo, perché si fece avanti un contadino che aveva le api e pretese di portarselo a casa lui. Fu grazie all’intervento della guardia comunale che il piccolo Carlo riuscì ad avere giustizia. A questo punto anche lo zio Andrea gli regalò uno sciame. Nel ’38, in un periodo di sviluppo economico, si trasferirono a Romagnano Sesia. Carlo andò militare quell’anno, e incaricò lo zio di guardargli le api. Al ritorno le trovò morte, ma lo zio gli fornì un po’di sciami per ricominciare. Anche i De Paoli, come tanti in quell’epoca, fecero da tramiti tra l’apicoltura rustica e quella moderna, razionale, con i travasi da scurbìn e cassettine grezze alle arnie, dove i favi venivano legati nei telaini col fìl genuès, che normalmente serviva per cucire i sacchi. I due lavoravano insieme, con lo stile di una volta, improntato da rilassatezza e piacevolezza, senza maschera e utilizzando il fumo di una sigaretta tenuta agli angoli della bocca. Dino De Paoli, che è l’erede della tradizione (figlio di Carlo, pronipote di Andrea) ricorda, parlando di circa trent’anni fa, come riuscisse a visitare una quarantina di alveari mentre ognuno di loro ne visitava al massimo una ventina. Estremamente diversi, Carlo andava in chiesa e non fumava; Andrea, che era stato il figlio più vecchio, caricato di responsabilità, aveva sviluppato un atteggiamento ribelle, e così non andava in chiesa e fumava. Anche in apiario i due si beccavano: “Zio, cambia ‘sti telaini!” gli diceva Carlo. Infatti Andrea usava praticare dei grossi fori nei favi, e giustificava questa pratica ricorrendo al paragone con le stalle di allora, dove lo spazio per i cavalli era diviso da quello delle mucche, e al di sopra c’erano le botole del fienile: “Tu come passi dalla stalla alla scuderia? dal fienile, o dalla porta?”. Dino De Paoli ricorda ancora la delusione dello zio, una volta che in una vigna aveva inarniato uno sciame in una cassettaccia con poche striscioline di cera, e lo sciame era subito fuggito: “L’è là! L’è là” esclamava disperato vedendolo allontanarsi. “T’ag dè la ca’ c’l’è mia bela” lo redarguiva allora il nipote. Delle malattie c’era una consapevolezza molto approssimativa. Le api erano meno, e, venendo tenute in prossimità delle cascine per evitare furti, godevano anche di posti salubri e di una buona protezione ed esposizione.
Le diagnosi erano approssimative (I g’on la cagöta) e le cure, di impronta campagnola, anticipavano rimedi moderni: una prossa d’ai schiacciata e inserita in uno sciroppo di acqua e zucchero molto riscaldato (in modo che sviluppi fruttosio). Un tuorlo d’uovo sbattuto fresco di quelli che non sempre si aveva il tempo di portare al vicino mercato di Carpignano. Lo sciroppo veniva preparato in una culdera stagnata ripulita dopo essere stata usata per il pastone dei maiali e posta su un treppiede.
Nel 66 Dino De Paoli era militare. Al suo ritorno trovò le api malate. Qualcuno aveva portato nella zona un apiario da Novara, sperando che “cambiando aria” potessero guarire.
Andrea morì a novant’anni, Carlo a ottantatre, nel 2000.
Per lui era stata una sofferenza quando l’azienda era passata a nome del figlio: “Mi servi pu gnente” ripeteva. Eppure lavorò fino a tre giorni prima di morire, nel 2000.
Dino fu il primo della famiglia a dedicarsi alle api a tempo pieno. Fino all’ 80 aveva lavorato part-time in un’azienda metalmeccanica, che gli permetteva di darsi gli orari che gli facevano comodo per accudire le api. Oggi ha quattrocento alveari e tende a ritornare stanziale e a limitare molto gli spostamenti.